Esami di stato 2005

SCRITTO DI PEDAGOGIA - Soluzione


 

PROVA DI PEDAGOGIA

 

Svolgimento

 I

 Tenendo conto in particolare, oltre l’autore che propone il brano, il pensiero del Piaget e del Bruner, storicamente acquisito e consolidato, la conoscenza viene a identificarsi con l’uso dei metodi euristici: raccolta dei dati, analisi e categorizzazione degli stessi, ricerca dei collegamenti tra i dati (concetti e principi), interpretazione di un campo d’indagine (teoria), generalizzazione ad altri campi, verifica, previsione rispetto ad eventi possibili.

In questo contesto la validità della conoscenza non sta tanto nelle idee che si ottengono alla fine del processo, quanto nel metodo usato per scoprirla. Socrate fu il primo a sostenerlo.

Inoltre, dato che ogni età ha un suo codice di rappresentazione (si fa riferimento allo storico sviluppo del metodo conoscitivo e all’uso degli strumenti), è possibile insegnare tutto a tutti, basta strutturare un certo contenuto secondo quel particolare codice acquisito.

Per quanto concerne la scuola elementare, si va dalle operazioni sul concreto alla rappresentazione figurativa, alla verbalizzazione e simbolizzazione. (domanda 1)

E’ sottinteso e scontato che prima e dietro “lo sportello” della comunicazione educativa c’è la cultura di chi educa e, nel caso di un’insegnante, c’è anche la sua formazione professionale.

Bisogna però fare attenzione alla distinzione fra docenti preparati all’insegnamento e non; accade che persone coltissime si dimostrino pessimi educatori, mentre persone di modesta istruzione e semplici costumi trasmettono un messaggio importante perché un’altra persona si riconosca, oppure riescono a stabilire un’interazione personale decisiva.

L’educazione non è riducibile solo al metodo anche se ha sempre bisogno di buoni metodi, bensì è sempre un processo, rapporto, evento, morale tra due e più persone, e quindi originale ritorno dell’educando e dell’educatore alla ragione ontologica nella quale trovare la propria originalità.

La scuola deve quindi assolvere questo compito altamente responsabile, formare cioè la personalità integrale di ogni individuo. (domanda 2)

Per attuare i suoi compiti, il docente si organizza in modo funzionale rispetto agli obiettivi educativi da perseguire, pertanto, mentre segue le linee di un programma che prescrive sul piano nazionale quali debbano essere i contenuti formativi e le abilità fondamentali da conseguire, predispone un’adeguata organizzazione didattica, affinché il programma possa essere svolto muovendo dalle effettive capacità ed esigenze di apprendimento degli alunni.

In tale compito teorico e pratico, l’insegnante, ossia l’operatore educativo, si identifica con tutti gli altri lavoratori, il cui prodotto delle loro attività, se eseguito con amore, responsabilità ed efficacia, sarà un bene per tutto il genere umano. (domanda 3)

Antonio Pilato

  

II

Dire conoscenza del territorio, vuol dire innanzitutto guidare il bambino a superare l’atteggiamento spontaneo di mobile ed instabile curiosità, a sostituire l’osservazione occasionale e superficiale con un esercizio sistematico di osservazione, senza soffermarsi su fatti e fenomeni eccezionali, come quelli registrati dalle guide turistiche, bensì su fatti ordinari che fanno da sfondo alla vita di ogni giorno nel territorio in cui vive.

Guardarsi attorno vuol dire scoprire sia gli elementi fisici e naturali che caratterizzano il territorio in cui si muove il bambino (monti, valli, coste, fiumi, laghi, mari), sia quelli artificiali, che sono stati apportati in momenti successivi dall’uomo.

Conoscere ciò che ci circonda vuol dire capire che il territorio naturale è il risultato di un processo di evoluzione della Terra, su cui va innestato, in un rapporto dinamico di mutuo condizionamento, un processo di trasformazione, verificatosi per l’intervento dell’uomo nell’ambiente naturale stesso.

A questo punto si consiglia al candidato di fornire un esempio didattico-operativo:

Esempio: Il docente invita dapprima la classe a guardare dalla finestra, a individuare alcuni edifici (uffici postali, chiesa) o zone (giardino, campo sportivo, strade, piazzole di rifornimento carburante), a collocarli sul foglio steso sul tavolo, in rapporto alla posizione della scuola, utilizzando delle “scatolette” o colorando zone verdi e strade.

L’insegnante suggerisce a ciascun bambino di osservare, ritornando a casa, dove si trova la stazione dei carabinieri, il distributore di benzina ed altro e di trovarne poi la collocazione spaziale corretta nel plastico.

L’insegnante può formulare questa nuova proposta non solo a scopo di verifica, ma anche con l’intento di ampliare lo spazio d’osservazione del bambino, chiedendogli di riprodurre non solo un ambiente che può dominare direttamente con il semplice sguardo, ma anche un ambiente più vasto, di cui deve costruirsi necessariamente un’immagine mentale.

(Lo svolgimento abbraccia sinteticamente tutte e tre le domande)

Antonio Pilato

 III

 

Attraverso le forme dell’educazione linguistica, il sofista si propone anche di formare cittadini consapevoli, perspicaci, eloquenti, in grado di esporre con efficacia le proprie tesi nell’agorà, che è il fulcro dell’attività politica e amministrativa della polis.

Con essi sorge l’idea della illimitata educabilità dell’uomo, dell’insegnabilità della virtù, e, soprattutto, la consapevolezza del condizionamento storico della verità.

Con i sofisti, la retorica, più della dialettica stessa, ponendosi su un piano relazionale-comunicativo, è considerata strumento di educazione.

Anche Aristotele le riconoscerà uno specifico statuto di validità. Il discorso aristotelico rimanendo ancorato all’individuazione della struttura logica delle argomentazioni esula dal campo della valenza comunicativa ( e persuasiva) insita in esse.

Con la sofistica si pone l’attenzione all’uditorio, alla necessità di modulare il discorso in considerazione “dell’anima” di colui al quale esso è rivolto.Diversamente da quanto accade per la dialettica, la quale si mette al servizio del tema trattato, facendosi guidare dalla logica del discorso stesso (restando in qualche modo impersonale), l’argomentazione si sviluppa tenendo conto, in primo luogo, del referente umano del proprio discorso.

Lo studio sulla retorica percorre tutta la storia della civiltà occidentale e giunge rinvigorito fino ai nostri giorni.

Perelman e Olbnechts-Tyteca pubblicano un’opera nella metà degli anni ’50, da cui prende avvio la “nuova retorica” con la necessità di un’attenta considerazione dell’auditorio stesso; occorre sapere a chi ci si rivolge quando si parla, ma non solamente, perché altrimenti il discorso non avrà l’esito persuasivo cercato. Soprattutto, i discorsi trovano senso solo entro i contesti che li fanno essere. Risulterebbe inefficace sul piano comunicativo, nonché della ricerca del vero, rivolgersi ad un uditorio particolare con lo stile argomentativo ad esso inadatto.

Cosa intendiamo per uditorio? Quale definizione possiamo dare di esso?

In primo luogo occorre tener presente che l’uditorio è una costruzione dell’oratore: è l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione. Esso è immaginato da ciascuno a partire da quanto egli sa, o presume di sapere, a proposito dei suoi simili.

Ma nell’agire comunicativo è insita problematicità e in quanto racchiuso dentro una dinamica circolare, non risulta mai del tutto padroneggiabile.

“Non sono mai quelli che vi parlano a rendersi buoni o cattivi – asserisce Demostene – siete invece voi che fate di loro ciò che volete. Infatti non siete voi a sforzarvi di fare ciò che essi vogliono, sono invece piuttosto loro che si sforzano di fare ciò che pensano che voi desiderate”.

Nel XX secolo il dibattito su questo tema si approfondisce e si allarga. Il rapporto tra politica e linguaggio è delicato. I nuovi governi o, comunque, le classi egemoni, si sono spesso scontrate sulle questioni relative all’opportunità o meno di favorire o dissuadere dall’uso di una determinata lingua.

Roma estende il suo impero e il latino prende piede; la Spagna si dedica alla colonizzazione del Nuovo Mondo e lo spagnolo diviene presto lingua egemone; quando l’Italia raggiunge l’unificazione politica, Manzoni assume un ruolo di primo piano.

Sul piano sociale la questione assume un’importanza evidente in termini di unificazione o di divisione di gruppi o di classi; su quello psicologico la portata dell’influenza del linguaggio è sicuramente meno evidente, ma altrettanto pervasiva: la relazione pensiero-linguaggio è decisamente problematica e rappresenta un interessante terreno di studio della psicologia sociale e della psicolinguistica.

Il provocatorio soffio di tale rapporto emerge nel testo di G.Orwell, 1984.

Nella fantascientifica Londra del 1984 il linguaggio (anzi la neolingua) gioca un ruolo dominante; ad esso i politici affidano buona parte del compito di plasmare le menti dei cittadini.

La teoria del relativismo linguistico sostiene che la lingua ha un’importanza determinante nel modellare l’universo cognitivo del parlante. Questa teoria non ha trovato chiare verifiche sperimentali.

Al contrario i dati che provengono dalla ricerca recente tendono tutti ad escludere un pervasivo effetto del linguaggio del pensiero (il dibattito Piaget- Vygotskij, l’innatismo di Chomsky), ma una qualche forma d’influenza resta ipotizzabile: il linguaggio interviene nell’incanalare la percezione, nell’aiutare la memorizzazione, nel facilitare il costituirsi di nessi associativi, nell’osservare la costruzione d’insieme di significati.

Può sembrare naturale che il bambino debba prima imparare a parlare, tradurre e comprendere il linguaggio e che solo dopo, quando ne è padrone, diventi capace di usarlo bene nella vita sociale.

A prima vista dovrebbe essere logico che l’acquisizione della competenza linguistica, cioè la conoscenza operativa della struttura fonologica, morfologica e sintattica del linguaggio, preceda quella della competenza pragmatica, cioè l’abilità di prendere parte ad una conversazione con le sue regole e la flessibilità che permette di parlare appropriatamente a seconda delle circostanze e degli interlocutori. Le cose invece non vanno così.

Almeno in parte lo sviluppo dell’abilità di usare il linguaggio comincia prima che il bambino arrivi a padroneggiarne la struttura. E quando nasce la comunicazione, il bambino è ancora lontano dall’aver acquisito il linguaggio. Lo sviluppo del linguaggio, dell’uso del linguaggio e della comunicazione dipende da vari fattori.

C’è stata discussione tra le varie scuole di psicologia, oggi si è propensi a ritenere che tutti i fattori individuati (rinforzi e influenze ambientali, sviluppo cognitivo, promozione dei programmi innati) abbiano un ruolo importante nello sviluppo linguistico e comunicativo.

Fra tutti questi è senz’altro importante l’ambiente sociale: i genitori e gli altri adulti e la classe sociale di appartenenza.

I bambini della classe più povera incontrano maggiori difficoltà ad impadronirsi della lingua standard del loro paese. Probabilmente le differenze si devono al diverso clima linguistico in cui i bambini crescono, la diversa importanza attribuita, da famiglia e cultura, allo sviluppo linguistico.

Pertanto l’attività educativa-didattica del docente non può settorializzare la sua programmazione e la realizzazione di essa.

Contemporaneamente dovrà costruire una realtà di apprendimento in un contesto aperto e flessibile, tener conto delle varabili presenti nell’aula, delle mille sfumature culturali e sociali, cognitive e linguistiche, con l’obiettivo di fare formazione, di promuovere l’apprendimento.

Mettere a fuoco la dimensione didattica dalla relazione educativa significa chiedersi quale riflesso abbiano sul piano relazionale le diverse scelte, di tipo metodologico, che vengono compiute dal docente.

E’ necessario tener presente i ritmi di apprendimento, l’età degli allievi, gli obiettivi delle diverse discipline e dei diversi moduli di apprendimento, anche del fatto che ogni allievo si pone in rapporto sia con l’insegnante che con i propri coetanei; va considerata la funzione giocata dalle reciproche aspettative, con particolare riferimento a quelle che si legano ai rispettivi ruoli.

Non si dimentica che numerose ricerche hanno dimostrato come esista una corrispondenza tra tutto questo e i risultati scolastici degli alunni e la modalità di strutturazione del processo di insegnamento appresi.

Possiamo sicuramente condividere la teoria dei concetti di Bruner che pone i concetti di come strumenti con cui l’uomo si rapporta con la realtà e la domina intellettualmente e le discipline sono fondamentali non tanto per gli specifici contenuti ma per i modelli di pensiero, le logiche, le strutture che implicano.

 

Nicoletta Romita

 

 

IV

 

A lungo si è pensato che l’educazione e la formazione non potessero essere oggetto di studi scientifici. Agli inizi del 900 c’era ancora perplessità circa la possibilità di studiare scientificamente i processi formativi. W.James afferma che” l’insegnamento è un’arte e le arti non sono mai state generate direttamente dalle scienze”.

Fare il formatore è un’arte che richiede una sintesi originale che solo la persona del formatore può fare. Questo non significa che le scienze della formazione siano inutili. J.Dewey afferma che le scienze della formazione sono utili per fare tradizione e migliorare le competenze dei formatori. La formazione si basa sull’apprendimento, chi viene formato cambia in quanto apprende e ogni apprendimento è un cambiamento individuale irreversibile e frutto d’esperienza. Anche se l’apprendimento è il fondamento della formazione, i due termini non vanno confusi. Le ragioni della confusione vanno cercate nel comportamentismo, soprattutto in quel filone noto come learning theory il cui esponente maggiore è stato Skinner.

L’apprendimento è un fenomeno più ampio della formazione e, nel corso della vita, impariamo continuamente.

La formazione ha un suo lato psicologico individuale che è l’apprendimento, ed un suo lato sociale di comunicazione, di rapporto con gli altri, con le realtà sociali.

Se guardiamo alle persone da formare, oltre l’apprendimento, hanno una parte importante i processi di motivazione. Di regola nell’apprendimento degli allievi intervengono tutte le motivazioni fondamentali (intrinseche ed estrinseche). Il need for competence ci spinge a verificare se siamo in grado di intervenire efficacemente sul mondo che ci circonda, se abbiamo il controllo dell’ambiente.

Nell’esperienza di formazione, in particolare nell’esperienza scolastica, l’impotenza appresa personale è un rischio sempre presente. Lo studente si impegna, cerca di dare il massimo, ma i risultati sistematicamente deludono…. Si convince di non essere all’altezza. Gli studi sull’impotenza appresa cominciano con Basedov, fino ad arrivare a Seligman che ha elaborato una teoria della depressione che ha trovato anche applicazioni terapeutiche.

Il crescere del valore della conoscenza e della formazione all’interno di tutte le istituzione e, a maggior ragione, in quella scolastica ha fatto maturare la consapevolezza del loro essere un fattore strategico come leva del cambiamento e dell’innovazione.

Spingono ad esplorare nuovi strumenti comunicativi.

Le istituzioni tendono a delinearsi come “luoghi dell’interazione, della comunicazione e della formazione” in cui “l’agire organizzativo” si qualifica sempre più come “agire comunicativo”.

In questo scenario le funzioni dedicate alla formazione e quelle che presidiano la comunicazione strategica tendono a divenire sempre più porosi e ci si orienta all’utilizzo delle comunicazioni digitali.

La comunicazione e la formazione abilitate dalle tecnologie rappresentano sempre più spesso il veicolo e il vettore per la creazione di una sfera simbolica comune attraverso un mix di strumenti. Le tecnologie digitali insieme alle tecnologie della formazione-insegnamento in presenza (che si fondano sul contatto personale e diretto e che non implicano l’utilizzo di una specifica tecnologia) diventano comunicazione e trasmissione dei saperi.

Le competenze del formatore-docente si pongono a livello dei saperi specifici e delle tecnologie legate alla loro trasmissione nonché alla scelta degli strumenti più adeguati al contesto, al pubblico di riferimento e alle finalità dell’intervento di formazione.

Nicoletta Romita

23 giugno 2005