Programma politico Ministro Fioroni

Audizione Camera del 29 giugno 2006


  Audizione del ministro dell'istruzione, Giuseppe Fioroni, sulle linee programmatiche del suo dicastero

Audizione del ministro dell'istruzione, Giuseppe Fioroni, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

 

GIUSEPPE FIORONI, Ministro dell'istruzione.

 

Ringrazio il presidente e i colleghi parlamentari.

 

Mi auguro di avere con la Commissione - questo è il mio intendimento - un rapporto franco e chiaro di collaborazione e di confronto. Un confronto, che spero possa essere foriero di soluzioni condivise nell'interesse della scuola italiana.

 

Il sistema educativo italiano sta vivendo una fase di difficoltà: le conseguenze delle politiche scolastiche dell'ultima legislatura si sono abbattute su un insieme di criticità irrisolte e su ritardi accumulatisi nel tempo in diversi campi strategici. I colleghi parlamentari e l'opinione pubblica conoscono le indagini internazionali, da cui emergono profili non precisamente lusinghieri dei risultati scolastici del nostro paese; e più in generale la notevole distanza che ancora ci separa dai traguardi fissati per il 2010 dalla Conferenza di Lisbona.

Di queste criticità, delle più antiche e delle più recenti, non intendo in questa sede-, presentare l'elenco, né sintetico né dettagliato. E neppure attardarmi in un'illustrazione delle specifiche responsabilità dei diversi attori; o delle sottovalutazioni di varia natura e di diversa origine, recenti e non recenti, che si sono scaricate su questo sistema così complesso e così delicato, di importanza strategica per la qualità dello sviluppo civile, sociale ed economico del nostro paese. L'attenzione di tutti, e la mia in particolare, oggi deve concentrarsi piuttosto su quello che è necessario e possibile fare, fin da subito e nel corso di questa legislatura.

Voglio invece dirvi quello di cui mi sono convinto cominciando a praticare il metodo che mi farà da bussola per tutto lo svolgimento del mio incarico, cioè l'ascolto attento e quotidiano di chi la scuola la vive e la fa concretamente - del suo corpo professionale, degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, degli studenti, delle famiglie -, prima e più dei molti che ne discutono da fuori e dall'alto. Voglio dirvi, in sintesi, che a mio parere non ha orecchie per sentire né occhi per vedere chi dalle pagine dei giornali proclama che la scuola italiana è morta, o comunque che le sue malattie, di natura ormai cronica, sarebbero inguaribili.

Non è affatto così. Sebbene ci troviamo di fronte alla necessità di mettere in campo interventi capaci di innalzare il suo livello medio di qualità - in tempi ravvicinati e in modo omogeneo su tutto il territorio tutela nazionale -, è assolutamente evidente che nella scuola italiana c'è una grande presenza di energie professionali positive, che si manifestano in una crescente capacità di lettura dei bisogni formativi dei giovani e anche del mondo dell'adulto, in un diffuso impegno nell'innovazione, in una significativa disponibilità alla ricerca didattica sul campo e a pratiche di sperimentazione. E, voglio sottolinearlo, in una sensibilità preziosa - spesso più acuta e reattiva di quella di altre strutture e servizi pubblici - nei confronti di fenomeni complessi, come l'immigrazione e il massiccio ingresso dei suoi figli nelle nostre strutture formative, nella nostra cultura, nella nostra vita sociale, o come l'integrazione nella scuola di tutti, dei ragazzi diversamente abili.

Spesso tutto ciò si realizza anche dove le condizioni strutturali della scuola e le condizioni stesse del lavoro che vi si svolge - dalla prolungata mortificante precarietà di troppi insegnanti ai modesti livelli retributivi - potrebbero alimentare, se non giustificare, uno stato di scoraggiamento e di inerzia. Non è tutto così, ma è anche così: ed è da qui, da quello che nonostante tutto si riesce in moltissime scuole a realizzare, e dal tessuto fitto e vitale di alleanze tra scuola e territorio che caratterizza numerose realtà del nostro paese, che bisogna muovere. Perché l'ottimo o l'eccellente indica con chiarezza quello che occorre contrastare e quello che occorre mettere in campo, per costruire le condizioni e gli strumenti di uno sviluppo effettivo e generalizzato delle risorse della scuola e delle potenzialità dell'autonomia scolastica. Perciò non ho in animo di elaborare l'ennesima riforma complessiva del sistema, a cui legare il mio nome. Il mio proposito è diverso. Il mio metodo è un altro.

Migliorare le condizioni di funzionamento della scuola e dell'autonomia scolastica è un obbiettivo di straordinaria importanza per il paese, per il suo sviluppo e per la sua stessa identità. Il ruolo della scuola non riguarda solo la trasmissione del sapere essenziale alla cittadinanza attiva e la formazione delle competenze culturali e professionali necessarie all'inserimento nel mondo del lavoro. La scuola non è solo il più importante degli strumenti di riproduzione e di sviluppo della comunità nazionale, è o può essere essa stessa un contesto comunitario e identitario per i milioni di persone giovani e adulte che vi operano e che la vivono direttamente. Una comunità in cui si realizzano percorsi di crescita culturale ed umana, prove concrete di solidarietà e di coesione sociale, esperienze di inclusione ed integrazione di alto valore civile ed etico. Non è un caso, infatti, che l'Italia dei mille campanili è anche l'Italia che, accanto alle autonomie locali, può far crescere una forte autonomia scolastica.

Nei quartieri metropolitani più difficile è questa esperienza comunitaria che, in molti casi, costituisce il presidio più importante contro l'isolamento e la solitudine urbana. Ed è qui, quando la scuola è progetto condiviso e patto di responsabilità, che si tessono la trama e l'ordito di appartenenza ed identità che rispondono alle domande di senso di giovani e adulti.

Se si creano le condizioni perché questa dimensione comunitaria possa svilupparsi pienamente e serenamente, senza l'ossessione di trasformazioni epocali e col sostegno delle autonomie locali e in primo luogo dei comuni, la scuola può diventare l'anima laica della società, dove si impara a porsi le domande giuste e a trovare come rispondervi, e a misurarsi con le responsabilità e le prove della vita adulta, come in una terra di mezzo in bilico tra tutela e autonomia; dove i concetti e i valori della partecipazione civile e democratica possono uscire dalle affermazioni astratte e farsi comportamenti concreti. Non sfugge a nessuno, e ne abbiamo numerose prove concrete anche nelle aree territoriali in cui il tessuto democratico è più a rischio, che l'esperienza scolastica può divenire la palestra più importante per lo sviluppo di una cultura, e perfino di una passione, democratica dei giovani.

L'autonomia scolastica, l'unica illuminata, e anche per questo costituzionale, riforma degli ultimi anni, ha in sé tutte le potenzialità necessarie allo sviluppo della dimensione comunitaria della scuola. Ma in questi anni è stata soffocata, mortificata, non implementata. È importante, in questo quadro, un'azione del Parlamento sugli organi collegiali di gestione dell'autonomia: attualmente, sono anche nello scarto tra modalità di gestione della scuola e autonomia scolastica, le ragioni del suo inadeguato o lento sviluppo. È urgente invertire la rotta: passa anche da qui il recupero di quella credibilità sociale e di quella dignità professionale a cui giustamente aspira il personale della scuola, e a cui noi dobbiamo dare una risposta.

L'autonomia scolastica e l'interazione, nei contesti locali, tra le diverse autonomie, costituisce il quadro di riferimento principale dei processi di innovazione e di riqualificazione, di cui l'intero sistema educativo ha bisogno. Pretendere di imporla dall'alto, con atti dirigistici, legislativi o amministrativi, sarebbe un grave errore, condannato in partenza all'incomprensione e all'inefficacia. Ciò che occorre non è una logica abrogativa, che sarebbe connotata inevitabilmente da rischi conservativi, né tanto meno la restaurazione - evocata da non poche cassandre - di una scuola del passato, che non può esserci perché è scomparso il suo mondo di riferimento. Ma, d'altro canto, bisogna evitare la pretesa, ancora una volta, di cambiare tutto e subito, anche se il nostro sistema educativo ha senza alcun dubbio bisogno di molte profonde innovazioni.

La via giusta, in un sistema fondato sulle autonomie, è quella dell'attivazione di processi di trasformazione condivisi: da un lato smontando, con il metodo del «cacciavite», ciò che li frena o li ostacola, dall'altro mettendo in campo ciò che occorre perché quei processi abbiano come traguardo una maggiore efficienza e una maggiore equità.

È allo Stato che spetta definire gli indirizzi e gli obiettivi formativi, ed è lo Stato che ha la responsabilità di indicare i criteri di riferimento dell'azione delle autonomie scolastiche funzionali e di costruire i dispositivi di verifica oggettiva e scientifica dei risultati del sistema. Ma il metodo, che è sempre sostanza anche della politica, deve essere quello della concertazione con le scuole e tra le scuole e delle intese con gli attori istituzionali - le regioni e le autonomie locali - che hanno competenze sul sistema educativo. La filosofia della concertazione non deve rinchiudersi nel solo ambito dei rapporti interistituzionali. Abbiamo bisogno di processi larghi e plurimi di condivisione delle scelte; quindi del contributo attivo delle organizzazioni sindacali, delle associazioni professionali, delle associazioni dei genitori e degli studenti. Quanto maggiore sarà la loro rappresentatività e la loro capacità di dialogo, superando logiche autoreferenziali o di nicchia, tanto più efficaci saranno i processi e i risultati della concertazione.

È stato questo l'approccio che ha guidato il primo incontro del 15 giugno scorso con le regioni, in cui sono stati concordati i primi impegni comuni. L'obiettivo è di procedere ad intese, che devono coinvolgere anche le province e i comuni, per la qualificazione di un sistema educativo unitario, di validità nazionale, fuori e contro ogni rischio di segmentazione territoriale, che produrrebbe insostenibili diseguaglianze dei giovani e delle famiglie nell'accesso all'istruzione e nella qualità dei suoi processi formativi e dei suoi risultati. La declinazione dell'offerta formativa secondo i bisogni formativi del territorio, che è necessaria, non può però in nessun modo e in nessun caso dar luogo ad un diritto all'istruzione diversificato secondo il luogo di residenza e secondo le caratteristiche economiche e sociali dell'origine familiare.

La nostra Costituzione è assolutamente chiara a questo proposito: il diritto all'istruzione, come il diritto alla salute, è universalistico, e deve essere assicurato dalla Repubblica indipendentemente dalle condizioni sociali ed economiche, dal sesso, dalle opinioni politiche, dalle scelte religiose. A maggior ragione, in questo quadro, il diritto all'istruzione deve essere indipendente dal luogo in cui alle persone sia capitato di nascere o di risiedere.

All'indomani del risultato referendario, possiamo dire con soddisfazione che la grande maggioranza del paese ha capito perfettamente il significato del diritto costituzionale, di tipo universale e solidaristico, all'istruzione e la portata della minaccia, a questo come ad altri diritti universalistici, rappresentata dalla cosiddetta devolution.

La scuola che vogliamo è una scuola capace di coniugare equità ed eccellenza, capace di garantire le pari opportunità di tutti nell'accesso all'istruzione e nella possibilità di successo formativo, l'eccellenza dei risultati, la valorizzazione dei meriti individuali.La scuola deve tornare a svolgere un ruolo decisivo rispetto alla mobilità sociale, assicurando non solo che ogni studente possa realizzare appieno le proprie potenzialità, seguendo in libertà e responsabilità le proprie propensioni ed attitudini, ma anche accompagnando al successo formativo e ai percorsi di istruzione superiore i giovani migliori, qualsiasi sia la loro condizione di partenza.

Sono segni inquietanti per le prospettive di sviluppo del paese i fenomeni di stagnazione sociale su cui il CENSIS è tornato con una sua recente indagine, il peggioramento delle condizioni dei figli rispetto a quelle dei padri, la riproduzione incessante, fin dalla scuola di base, del peso dei condizionamenti del contesto familiare di appartenenza sul successo scolastico e formativo.

Don Milani scriveva, nei primi anni sessanta del secolo scorso, che doveva esserci qualcosa di sbagliato in una scuola e in una società in cui i figli dei poveri risultavano essere, immancabilmente, «i più cretini». Come commenterebbe oggi, a 43 anni dall'istituzione della scuola media unica e obbligatoria e a distanza di trent'anni dall'avvio della scolarizzazione di massa, il fatto che solo l'8 per cento dei figli dei ceti popolari arriva a laurearsi? E il fatto che sul successo scolastico dei ragazzi incide, ancora di più delle condizioni economiche della famiglia, il titolo di studio dei genitori?

In una società in cui l'apparire vale più dell'essere, l'essere meno dell'avere, le appartenenze più delle competenze e le fedeltà più dei meriti individuali, è importante che almeno nella scuola si sappia andare controcorrente e che i giovani imparino a rispettare valori diversi. Ma questo non può avvenire se le capacità e l'impegno individuale dei singoli non vengono riconosciuti e valorizzati. Dobbiamo sostenere ed incentivare l'impegno dei giovani a raggiungere l'eccellenza, dentro la scuola e nei percorsi formativi superiori.

Ho voluto, fin dai primi giorni del mio incarico, tornare alla definizione del Ministero come Ministero della pubblica istruzione, per precisare un concetto - e un valore - a cui tengo molto e a cui tutti dobbiamo tenere. Cioè che in democrazia l'istruzione è una funzione pubblica, è un servizio pubblico, perché riguarda tutti e perché le sue finalità sono decise dalla comunità, e che tale è e resta, indipendentemente dalla natura del soggetto che gestisce l'offerta formativa, sempre che il soggetto gestore risponda a quelle finalità e alle regole che ne derivano. Tutto ciò è già scritto nella legge n. 62, varata dal centrosinistra, sulla parità scolastica. Sono molto preoccupato del taglio pesante, di 167 milioni di euro, che il precedente Governo ha operato su questo capitolo. Il rischio maggiore riguarda il diritto dei bambini e delle famiglie alla scuola per l'infanzia, per il peso specifico in questo campo che hanno le scuole paritarie, in particolare in molti piccoli centri e nelle zone di montagna. Queste risorse dobbiamo recuperarle e orientarle su questa priorità.

Funzione pubblica significa anche, scavando più a fondo, che la scuola non può lasciare indietro nessuno; che deve prendersi cura anche e soprattutto di chi ha problemi, di chi non ce la fa da solo. Anche qui soccorrono le parole della Lettera a una professoressa di Don Milani, che ironizzava spietatamente su una scuola che ritenesse di essere fatta solo per quelli capaci di apprendere da sé: proprio come un ospedale che ritenesse di doversi occupare dei sani, invece che dei malati.

Voglio dire qualcosa, a questo proposito, su tre temi della massima importanza per il ruolo e la qualità del nostro sistema educativo: l'integrazione scolastica dei diversamente abili, gli immigrati stranieri e l'interculturalità, l'educazione degli adulti.

Tra le nostre specificità positive in ambito europeo c'è l'integrazione dei disabili nella scuola di tutti. Nessun altro sistema educativo ha a questo proposito norme così perentorie come le nostre. Dobbiamo esserne orgogliosi. Nel 2003-2004 gli allievi diversamente abili erano 161.159: l'1,8 per cento del totale degli studenti, il 2,3 per cento nella scuola primaria, il 2,8 per cento nella scuola media, l'1,2 per cento nella scuola superiore. Un significativo aumento di questi allievi si è avuto negli ultimi cinque anni, anche nelle scuole non statali (0,5 per cento): l'inserimento di questi allievi, infatti, è uno dei requisiti richiesti per il riconoscimento di scuola paritaria. Ma dobbiamo anche migliorare le condizioni e gli strumenti di una integrazione scolastica efficace, rivedendo l'organico degli insegnanti di sostegno, i criteri della loro distribuzione e la loro preparazione professionale, perché siano funzionali ai bisogni effettivi dei ragazzi diversamente abili e alla classe in cui essi sono inseriti; ottenendo dalle ASL diagnosi effettivamente funzionali; superando le difformità dell'integrazione scolastica tra scuola di base e scuola secondaria superiore; costruendo le condizioni per un'organizzazione della didattica più flessibile ed aderente ai bisogni individuali e alle classi di appartenenza; dotando le scuole della strumentazione tecnologica necessaria. Dobbiamo anche, utilizzando le anagrafi sanitarie, portare dentro la scuola i ragazzi diversamente abili che ancora ne sono fuori.

La specializzazione degli insegnanti di sostegno deve essere pienamente valorizzata e sottratta al rischio che vada dispersa per convenienze di vario tipo. Ma è evidente che, per l'integrazione dei ragazzi in difficoltà, è importantissima anche la competenza e l'impegno professionale degli insegnanti curricolari, e di questo dobbiamo prenderci cura. Come primo intervento su questo insieme di problemi, ritengo importante rimuovere il bizzarro, e privo di ogni fondamento scientifico, criterio di definizione degli organici degli insegnanti di sostegno, che era stato introdotto recentemente: quel criterio che, con logica tipicamente aziendalistica, calcolava il numero degli insegnanti di sostegno necessari sul numero totale degli allievi, invece che sul numero degli allievi disabili. Per l'approfondimento degli altri temi è stato immediatamente attivato il rapporto con l'Osservatorio sull'handicap e con le associazioni che se ne occupano.

Tornando al tema, anche a questo proposito, è essenziale il rapporto con la scuola reale, sia per avere il quadro esatto delle criticità sia per raccogliere nuove proposte. Se l'integrazione scolastica dei diversamente abili è sempre un vantaggio per i ragazzi che non lo sono, perché possono nell'incontro quotidiano con loro maturare capacità di rispetto e di relazionalità importantissime per la propria formazione umana, bisogna trarre, da una pratica di integrazione ormai trentennale, tutte le indicazioni utili a migliorare l'inserimento dal punto di vista della sua efficacia sulla crescita dei ragazzi in difficoltà.

Un tema strategico è costituito anche dall'impatto nella nostra scuola dell'inserimento dei figli dell'immigrazione: nel 2003-2004 erano più di 300 mila, presenti ormai nel 52,9 per cento degli istituti scolastici. La maggior parte degli stranieri si iscrive nella scuola statale (271.718), solo 31.556 sono in quella non statale. Il maggiore addensamento di iscrizioni è nella scuola primaria (4,7 per cento) e nella scuola media (4,1 per cento), mentre siamo solo all'1,9 per cento - ma in crescita, evidente, negli ultimi anni - nella scuola secondaria superiore. I valori più alti sono nelle regioni del nord: il più alto è in Emilia-Romagna (6,4 per cento), seguita da Lombardia, Veneto, Marche. Il più basso in Sardegna (0,5 per cento).

Se l'accoglienza è, nell'insieme, di buon livello, è però evidente che il percorso scolastico dei ragazzi stranieri si presenta più difficile che per gli studenti italiani. I ritardi e gli insuccessi sono più numerosi fin dalla scuola di base: già nella scuola elementare si riscontra un 3,4 per cento in più di non promossi tra gli stranieri, e un 7,1 per cento in più nella scuola media. Lo scarto è ancora più vistoso nella scuola secondaria superiore, dove raggiunge il 12,6 per cento. Tutto ciò incide non poco sugli indici di passaggio dalla scuola di base ai percorsi scolastici e formativi successivi e costituisce un pericolo evidente per l'integrazione sociale e professionale dei giovani immigrati di seconda generazione.

È invece sostenuto l'incremento di allievi stranieri nei percorsi di formazione professionale successivi alla scuola media, nei corsi serali per lavoratori studenti della scuola secondaria superiore e nei corsi dei centri territoriali per l'educazione degli adulti.

Sono dunque necessari alcuni interventi di miglioramento delle condizioni dell'integrazione, a partire dall'apprendimento della lingua italiana come lingua seconda per i ragazzi e per i loro genitori. Se per il successo scolastico dei ragazzi italiani conta moltissimo - e in verità troppo - il livello di istruzione dei genitori, il fatto che, in molti nuclei familiari immigrati, gli adulti non padroneggino la lingua italiana è un fattore di forte svantaggio per i loro figli. La scuola come comunità deve significare una responsabilizzazione anche nei confronti delle famiglie dei ragazzi stranieri.

Anche alcuni contenuti culturali della scuola dovrebbero ampliarsi ed arricchirsi. Se l'asse culturale della nostra scuola deve avere al centro le radici culturali europee e sviluppare tra i giovani la comprensione e l'interiorizzazione della nuova dimensione europea e delle tradizioni, storie e culture, che vi sono sottese e che la rendono possibile, i contenuti dell'apprendimento devono essere tali da facilitare il rapporto e lo scambio anche con le altre culture e le altre identità. È un problema che, nel mondo globalizzato di oggi, riguarda la formazione di tutti. Devono inoltre essere messe in campo politiche, anche di formazione degli insegnanti, che favoriscano attraverso la didattica il dialogo e la formazione interculturale.

Dobbiamo sapere che passano largamente dalla scuola le possibilità di costruire una società insieme plurale e coesa, in cui gli stranieri non siano considerati come ospiti in prova perenne, ma come nuovi cittadini, con diritti e doveri, e in cui anche il paese che accoglie sia disponibile e in grado, pur senza rinunciare alle proprie specificità, di misurarsi con l'apporto delle culture degli altri. Un proposito difficile e tuttavia essenziale, che ha bisogno di una scuola che faccia da ponte tra le culture di provenienza e quella di arrivo e che sia capace di contribuire al mantenimento delle lingue e delle culture di appartenenza. È grande la responsabilità del sistema educativo nel favorire, a partire dal riconoscimento delle nostre comuni radici europee, la crescita tra le nuove generazioni di un nuovo umanesimo, la transizione ad una società sempre più umanizzata ed aperta.

In questo quadro, sono grandi le potenzialità positive, che possono avere le istituzioni educative italiane e i giovani che le frequentano, per costruire rapporti di dialogo e di pace nel Mediterraneo, con i paesi dell'altra sponda, con il Medio Oriente, con le popolazioni arabe e con l'Islam moderato. Devono essere valutate con attenzione e rispetto le richieste delle comunità di aprire la nostra scuola anche ad occasioni di apprendimento delle lingue e delle culture di origine.

Voglio, infine, sollevare un tema di straordinaria importanza, che è invece solitamente relegato in posizione marginale nel dibattito e nelle politiche scolastiche, cioè l'educazione degli adulti come elemento essenziale della strategia dell'apprendimento lungo tutto il percorso della vita.

Sviluppare l'educazione degli adulti dentro il nostro sistema di istruzione e formazione ci interessa per vari ordini di motivi: perché il basso livello di istruzione dei genitori ha un'influenza determinante nell'insuccesso scolastico dei ragazzi; perché i limiti gravi, che ancora registriamo nella diffusione delle competenze di base ed alfabetiche nella popolazione adulta, anche di fasce di età giovani, è un ostacolo fortissimo per lo stesso accesso dei lavoratori alle opportunità di formazione professionale continua e, più in generale, per l'esercizio della cittadinanza attiva; perché in un mondo del lavoro caratterizzato da processi di trasformazione tecnologica e produttiva, la presenza di quote molto consistenti di lavoratori con modestissimi livelli di competenze di base e funzionali si traduce in rischi molto forti di marginalizzazione professionale e sociale, in contraddizioni per il paese, in ostacoli alla sua crescita.

Non dobbiamo dimenticare che solo nel 2003 siamo per la prima volta scesi al di sotto del 30 per cento di cittadini adulti con al massimo la licenza elementare; che il possesso di un diploma - che oggi è la soglia di istruzione considerata essenziale (come è stata la licenza elementare negli anni cinquanta e la licenza media negli anni settanta) - riguarda solo poco più del 40 per cento degli adulti in età da lavoro; che tornano in formazione da adulti soprattutto le persone che hanno già un livello di istruzione di livello medio ed alto, perché la «formazione chiama formazione» e perché le aziende investono soprattutto, se non unicamente, sui lavoratori meglio dotati culturalmente e meglio collocati professionalmente.

E neppure dobbiamo dimenticare quello che una recente indagine Eurostat ci segnala, cioè che, dopo anni di retorica sull'importanza fondamentale nella vita e nel lavoro del linguaggio dell'informatica, la gran parte degli adulti non è in grado di aprire un personal computer e fra questi compare anche un 28 per cento riferito ai più giovani.

Le strutture scolastiche italiane dedicate all'educazione degli adulti sono una realtà già oggi piuttosto importante. Nel 2003-2004 gli iscritti ai nostri centri territoriali per l'educazione degli adulti sono stati 470 mila, di cui il 26 per cento erano stranieri immigrati, per un terzo almeno diplomati e laureati, che imparano l'italiano e che conseguono, in mancanza di riconoscimento del loro titolo di studio, la licenza media. Mentre gli iscritti ai corsi serali della scuola superiore per il conseguimento di qualifiche professionali e diplomi hanno ricominciato a crescere e sono oggi più di 60 mila.

Anche in questo caso abbiamo esperienze di straordinaria vitalità e qualità; ma anche qui occorre sviluppare, qualificare, innovare sia con interventi e dispositivi specifici, sia promuovendo, come previsto nel programma del Governo, una norma-quadro basata sul diritto dell'apprendimento lungo tutto il corso della vita come diritto soggettivo di tutti, lavoratori e non lavoratori. Occorrerà anche riattivare l'accordo del 2 marzo 2000 della Conferenza unificata, rimasto da allora congelato.

L'offerta per adulti di cui attualmente disponiamo è infatti largamente inadeguata a una domanda potenziale in continua crescita; non è ancora sufficientemente coordinata ed integrata; è troppo limitata e rigida sul versante del conseguimento dei diplomi, che costituisce oggi la nuova frontiera per i giovani adulti, italiani e immigrati; ha urgente bisogno di criteri di riferimento oggettivi e validi dovunque per la certificazione delle competenze acquisite per via non formale e per il riconoscimento dei crediti; non è sostenuta, come dovrebbe, da efficaci servizi di orientamento sul territorio e di bilancio delle competenze. Nel corso della legislatura sarà necessario promuovere, d'intesa con le autonomie locali, una campagna di sviluppo della domanda di istruzione e di formazione degli adulti, in particolare dei genitori di ragazzi in età scolare.

Ma dobbiamo, contestualmente, evitare il rialimentarsi continuo del bacino dei troppo pochi istruiti. A questo proposito, la madre di tutte le battaglie consiste nel contrastare le patologie dell'insuccesso scolastico, della demotivazione all'apprendimento, degli abbandoni. Patologie che portano, com'è noto, a un indice di diplomati pari al 72 per cento dei ventenni, contro l'80 per cento della media europea, ma inferiore anche di 15-20 punti percentuali rispetto ai paesi con le performance migliori.

Non c'è una ricetta unica e nessuna ricetta è semplice. Il funzionamento della scuola e i suoi risultati non dipendono solo dalla sua fisionomia strutturale e neppure solo dalla sua durata. Se fosse così, il nostro paese, che diploma i suoi giovani dopo 13 anni di scuola e a 19 anni, mentre altrove il percorso scolastico è più corto e l'età di uscita è a 18 anni, dovrebbe essere in vantaggio. Ma le indagini internazionali comparate ci dicono cose diverse. Per avere chiaro il quadro della complessità dell'impresa è importante sottolineare tre dati incontrovertibili. Il primo è che già nella scuola media più del 2,5 per cento dei ragazzi ne esce ogni anno senza aver conseguito il titolo: una condizione che rende impossibile accedere a qualsiasi ulteriore percorso formativo di carattere formale, anche nella formazione professionale, e che condanna, se non si predispongono percorsi di recupero dei titoli di studio (oggi l'unica strada è, notoriamente, nei corsi dei centri per l'educazione degli adulti, finalizzati al conseguimento della licenza elementare e media), a rischi molto alti di marginalità lavorativa e sociale. Non solo. Quasi la metà dei licenziati della scuola media ne esce con la valutazione di «sufficiente», che significa aver già accumulato deficit di vario tipo nelle competenze di base e affrontare in condizioni difficili la scuola secondaria superiore, nelle cui prime classi, infatti, esplodono i più gravi fenomeni di dispersione.
Il secondo dato è che il tasso di passaggio dei licenziati dalla scuola media alla scuola media superiore ha raggiunto il 97 per cento, con un andamento in ulteriore crescita. La situazione, dunque, è molto diversa da quella degli anni settanta, quando l'obbligatorietà dell'istruzione era lo strumento principe, simbolico e fattuale, per forzare la resistenza di quote ancora importanti delle famiglie ad investire nell'istruzione lunga dei figli. Oggi, il nostro problema è quello di quel 25 per cento di 14-18enni, che alle superiori ci è andato, ma che poi le ha abbandonate o ne è stato espulso. È dunque indispensabile assicurare le condizioni di una prevenzione e di un recupero della dispersione, attraverso azioni didattiche e percorsi capaci di motivare e di rimotivare, di compensare i deficit accumulati, di assecondare e valorizzare le propensioni, gli interessi, gli stili di apprendimento, le intelligenze, i talenti di ogni ragazzo e di ogni ragazza. È un problema fatto principalmente di fisionomia e di flessibilità dei curricula, di qualità e specializzazione della didattica, di capacità delle autonomie scolastiche di integrazione dei percorsi, di orientamento, che non si risolve con scelte di tipo esclusivamente ordinamentale e che richiede di agire contestualmente su molti e diversi fronti.

Il terzo dato è che in Italia, come in tutti i paesi dell'Unione europea, si ha diritto di entrare nel lavoro anche prima dei diciotto anni e che sono una percentuale non insignificante i ragazzi che utilizzano questa possibilità: per le più diverse ragioni, non riconducibili unicamente all'insuccesso o alla dispersione scolastica o a difficili condizioni economiche, ma anche all'attrazione del lavoro come strumento di autonomia e come via per raggiungere un'identità adulta. Nel programma del Governo abbiamo previsto l'innalzamento dell'età dell'ingresso al lavoro dai quindici ai sedici anni, in coerenza con il prolungamento di due anni dell'obbligo scolastico. È un obiettivo importante, ma è evidente che non basterebbe, se non venisse accompagnato dalla predisposizione di percorsi misti tra formazione e lavoro in grado di assicurare il conseguimento di qualifiche professionali e, comunque, di crediti per il conseguimento dei diplomi. Dobbiamo tornare, quindi, sulla questione dell'apprendistato formativo, che non è stata affatto risolta da quanto prevede in proposito la legge n. 30 del 2003, e dobbiamo negoziare le condizioni perché non ci sia attività lavorativa, al di sotto dei diciotto anni, che non abbia una prevalente dimensione formativa e che non conduca al conseguimento di qualifiche professionali e/o di crediti riconoscibili per il proseguimento in percorsi formativi ulteriori di carattere formale.

Contrastare la dispersione, dunque, significa agire sia sul versante della prevenzione, che su quello della compensazione. Significa non solo concentrare l'attenzione sulla fascia d'età dei 14-16 anni, ma agire anche prima ed anche dopo, accogliendo l'indicazione dell'Unione europea che considera strategico l'intervento per il conseguimento dei diplomi e delle qualifiche nella fascia di età fino ai venticinque anni. Significa adottare l'approccio del lifelong learning, tipico di una società democratica ed aperta, che significa non dare mai per scontato che la prima volta è quella definitiva e che le scelte e i risultati siano irreversibili. Significa prendere sul serio le strategie dell'orientamento. Significa intervenire sul cuore dell'apprendimento, che è la qualità della relazione educativa, e quindi sulla cultura professionale degli insegnanti e sulla qualità della didattica. Significa non lasciare mai sola la scuola, favorendone l'alleanza con le forze vive e con le risorse del territorio. Ed infine significa non dimenticare, anche in questo caso, quella splendida lezione che ci dice che non c'è ingiustizia peggiore che presentare la stessa identica minestra a persone con gusti e stomaci diversi: il risultato sarà che molti non digeriranno o smetteranno di mangiare.

Anche su questo tema, non mancano nel sistema educativo italiano le esperienze di eccellenza, da prendere come base di partenza per l'elaborazione di nuove strategie.

Ci sono piste e risultati interessanti anche nei discussi percorsi sperimentali triennali, attivati a partire dal 2003-2004 dalle regioni, che integrano variamente scuola e formazione professionale; apprendimenti teorici e apprendimenti in laboratorio e in contesti operativi; sapere, saper fare, saper essere; scuola, formazione, orientamento, esperienze di laboratorio e di lavoro. In diverse realtà, infatti, la dispersione sta diminuendo ed una percentuale consistente degli allievi, conseguita la qualifica professionale, rientra nei percorsi di istruzione. Si tratta, anche dal punto di vista quantitativo, di un'esperienza non molto significativa, ma di certo non insignificante. Gli allievi dei percorsi triennali sono, oggi, 74 mila, più nelle prime che nelle classi successive, con un evidente incremento della domanda, in diverse realtà non soddisfatta, per l'insufficienza delle risorse destinate dal nostro Ministero e da quello del lavoro. Allo stesso motivo si deve il fatto che solo in tre regioni sia stato attivato il previsto quarto anno di specializzazione professionale.

Non si tratta assolutamente di modelli generalizzabili su scala nazionale, sia perché le tipologie attivate dalle regioni sono piuttosto diversificate nelle diverse realtà territoriali, sia perché non dovunque i sistemi locali di formazione professionale sono adeguati per quantità e qualità ad integrarsi con la scuola o a sviluppare percorsi autonomi con le prerogative richieste. Si tratta, però, di esperienze rivelatrici di logiche e metodi interessanti, di esperienze che mettono in atto dispositivi innovativi di orientamento, certificazione dei crediti, definizione degli standard, formazione congiunta degli insegnanti e dei formatori, da cui è possibile e necessario trarre stimoli ed indicazioni concrete per mettere sui binari giusti la lotta alla dispersione.

La priorità che dobbiamo attribuire alla lotta alla dispersione - lo ripeto ancora una volta - non può lasciare in ombra il traguardo dell'eccellenza. Equità ed eccellenza vanno sempre di pari passo. Il sistema educativo deve saper promuovere le intelligenze migliori. E la Repubblica, come dice la Costituzione, deve sostenere l'impegno dei singoli al raggiungimento dell'eccellenza. In altri paesi europei questo è un elemento decisivo delle politiche educative: dovremo anche noi predisporre incentivi adeguati in questo senso per i nostri studenti.

Vengo al tema della scuola per l'infanzia. Per una scuola che non lasci indietro nessuno e che sviluppi, fin dai primi anni di vita, la capacità di apprendimento di tutti, assicurando una crescita equilibrata dei bambini anche dal punto di vista affettivo e relazionale, è indispensabile intervenire sulla scuola per l'infanzia. Dobbiamo garantire, infatti, in tutte le aree del paese, a partire dal Mezzogiorno, un pieno equilibrio tra domanda ed offerta. Si tratta di un diritto fondamentale per i bambini dai tre ai sei anni, ma anche per le famiglie, in particolare per le mamme che lavorano o vorrebbero lavorare. Le politiche per la scuola dell'infanzia - il suo sviluppo quantitativo, la sua qualità - fanno parte a pieno titolo delle politiche per le pari opportunità tra uomini e donne rispetto al lavoro.

Oggi, la partecipazione dei bambini alla scuola per l'infanzia, tra scuole statali, comunalie paritarie, è molto alta e supera il 97 per cento (il 58 per cento dei bambini sono nelle scuole statali). Se consideriamo che la scuola dell'infanzia non è una scuola obbligatoria, ci rendiamo facilmente conto di che cosa questa partecipazione significhi. Essa è il segno di una diffusa consapevolezza delle famiglie dell'importanza della socializzazione dei bambini - tanto più acuta in una società di «figli unici» - e dello sviluppo delle capacità espressive, motorie e cognitive anche prima dell'infanzia nella scuola di base. Ma è anche il segno di un forte bisogno delle famiglie, non più concentrato solo nelle aree urbane, di contesti affidabili e di qualità, per la protezione e l'educazione dei figli, anche nei primi anni di vita. Dietro a tutto ciò ci sono anche le nuove famiglie, sempre più prive delle reti familiari allargate di una volta, e la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Una scuola per l'infanzia di qualità, d'altro canto, è un efficace strumento per intervenire per tempo sulle disuguaglianze derivanti dalle condizioni sociali, economiche e culturali delle famiglie di origine, ma anche sui deficit sensoriali e linguistico-comunicativi dei bambini. Ma non in tutte le scuole per l'infanzia c'è la possibilità del servizio anche postmeridiano e serie carenze - edilizie e di servizi - si registrano nei piccoli centri e nelle aree urbane di recente insediamento. Lo sviluppo della scuola per l'infanzia rende necessario un impegno condiviso tra Stato e comuni, a cui spetta l'attuazione dei servizi di mensa e di trasporto, oltre che la predisposizione degli edifici, e un miglior coordinamento tra scuole statali, comunali e paritarie. Anche l'anticipazione dell'età di iscrizione alla scuola per l'infanzia si iscrive, con tutta evidenza, in questo quadro. Come è noto, essa richiede l'attivazione da parte dei comuni di condizioni logistiche, di servizi e di figure professionali aggiuntive e ciò non è facilmente realizzabile dovunque in tempi brevi. Per questo ho proposto il rinvio dell'entrata a regime dell'anticipazione, ritenendo che questa appartiene alla riforma di quella scuola che ancora i nostri comuni non sono in grado di potersi permettere.

Per quanto riguarda il tempo pieno e il tempo prolungato nella scuola di base, tra gli impegni dell'oggi, c'è il ripristino delle condizioni che consentano alle autonomie scolastiche di attuare il tempo pieno e il tempo prolungato come un modello didattico declinato sulla domanda delle famiglie e sui bisogni educativi degli allievi nei diversi contesti territoriali. Lo spacchettamento del monte-ore nella somma di attività diverse, determinato nella precedente legislatura, oltre a provocare rischi di privatizzazione familistica del curriculum, ha riproposto una divisione tra il tempo dell'istruzione e il tempo dei servizi, che la scuola italiana aveva superato da trent'anni, mortificando le prerogative e le responsabilità dell'autonomia scolastica e della comunità-scuola.

Sulle caratteristiche del modello didattico, così come sulla strutturazione dei curricula, l'impegno ad evitare qualsiasi forzatura statalista e dirigista è totale. In questo quadro, è da rivedere anche la logica implicita nell'emanazione delle «Indicazioni nazionali».

Lo Stato non è portatore di una sua pedagogia e di una sua metodologia didattica. Il suo compito è un altro, quello di definire gli obiettivi formativi, sulla cui base diventa possibile anche una seria e scientifica valutazione dei risultati del sistema e delle singole istituzioni scolastiche, mentre è alle autonomie scolastiche e alla capacità professionale dei docenti, che spetta la progettazione dei curricula.

Anche sui dispositivi introdotti dal Governo precedente, come il portafolio e il tutor, l'azione del Governo non riguarda solo l'emendamento di ciò che è inadeguato o non praticabile. La nostra bussola sta nel restituire all'autonomia scolastica le scelte che le spettano e la sua piena responsabilità.

Sottolineo, inoltre, la necessità di rendere pienamente attuativo ciò che è già previsto nelle norme, cioè lo sviluppo della continuità educativa all'interno della scuola di base. Un principio, quello della continuità, espressamente previsto per legge, che dovrà trovare strumentazioni efficaci anche nei percorsi ulteriori: di tipo verticale, tra scuola di base e secondo ciclo, tra questo e l'istruzione e formazione superiore; di tipo orizzontale, tra i diversi indirizzi, le diverse opportunità formative, l'istruzione, la formazione, il lavoro.

Quanto al tema del superamento del precariato, l'altissimo numero di insegnanti precari costituisce un'emergenza di primaria importanza.

Sono iscritti nelle graduatorie permanenti 313.842 insegnanti non di ruolo, di cui 157.830 - i cosiddetti «precari storici» - hanno un'anzianità di servizio di almeno trecentosessanta giorni. A questi ultimi si aggiungeranno, nel 2007-2008, altre 67 mila docenti, che stanno ultimando i corsi speciali abilitanti previsti dalla legge n. 143 del 2004. Sempre nello stesso anno, ai 152.850 aspiranti con meno di trecentosessanta giorni di servizio se ne aggiungeranno altri 20 mila, che nel frattempo concluderanno i corsi delle scuole di specializzazione di istruzione secondaria.

Nel 2006-2007, i posti disponibili e vacanti sono 62.461, di cui 29.463 da turn-over. Con decreto interministeriale sono state autorizzate 20 mila nomine per il 2006-2007 e 10 mila nomine per il 2007-2008. Per altre 20 mila nomine, è stata richiesta l'autorizzazione il 31 maggio del corrente anno.

Sono numeri che danno l'idea dell'enorme sproporzione tra aspiranti e posti effettivamente disponibili, ma insieme dell'abnorme sviluppo di un precariato alimentato incessantemente da alcune regole vigenti, relative alle supplenze brevi e alla loro copertura, alla fisionomia delle cattedre e alle modalità di assegnazione dell'organico. Sappiamo, d'altro canto, che le esigenze che si determineranno per i pensionamenti dei prossimi anni sono anch'esse imponenti e che vi sono potenzialità interessanti di aumento dei posti disponibili connesse allo sviluppo di alcuni settori strategici, dall'educazione degli adulti all'istruzione tecnico-professionale superiore, dalla generalizzazione della scuola per l'infanzia agli incrementi di scolarità derivanti dall'immigrazione straniera.

Ma intanto il precariato costituisce un'emergenza per la stessa qualità del sistema educativo. Non si può pretendere, infatti, di coinvolgere tutti gli insegnanti nella ricerca didattica e nei processi di modernizzazione ed innovazione del sistema, di contare - come modo principale per migliorare la scuola - sulle loro capacità, se una parte di essi non avverte situazioni di stabilità e di certezza. La mortificazione professionale non è mai una buona compagnia nel lavoro, tanto meno lo è in una professione che richiede comportamenti attivi, capacità relazionali, investimento continuo e di lunga durata sugli altri e su sé stessi.

Abbiamo bisogno, inoltre, di un ricambio generazionale, in una categoria con un livello medio di età molto alto, ed anche di una maggiore presenza nell'insegnamento, soprattutto nella scuola per l'infanzia, di docenti maschi. La stabilizzazione progressiva del precariato, dunque, non è solo un problema, è anche una risorsa, e fa parte di una strategia che comincia ad essere fortemente caldeggiata anche in ambito europeo ed internazionale: quella di rendere più attraente la professione per i nostri laureati. L'immissione in ruolo di quote importanti degli aspiranti, se sostenuta da efficaci interventi di formazione e lavoro, può contribuire al miglioramento della qualità media del nostro sistema educativo.

Occorre affrontare il problema in diversi modi. Si tratta, in primo luogo, di procedere alla stabilizzazione progressiva degli insegnanti precari su posti disponibili e su quelli che, via via, si libereranno per i pensionamenti, ma anche di dar vita ad un piano pluriennale che, agendo sui criteri di assegnazione degli organici, sull'ampliamento delle aree disciplinari di riferimento, sulla gestione delle supplenze brevi da parte delle autonomie scolastiche, consenta il contenimento della riproduzione e dell'espansione del precariato.

Ci sono, poi, connessioni importanti tra il superamento del precariato docente e la realizzazione di efficaci percorsi di formazione iniziale. È un campo molto problematico, che richiede un approfondimento preliminare all'assunzione di adeguate decisioni.

Meno problematica, ma molto drammatica, e anch'essa importante, è la situazione del precariato non docente: nel 2006-2007, gli aspiranti non di ruolo sono 66.009, su un totale di 78.288 posti disponibili e vacanti (di cui 8.167 da turn-over). In questo settore di lavoro è, peraltro, urgente una ridefinizione dei fabbisogni professionali effettivi nella scuola dell'autonomia. Per il momento, abbiamo chiesto, oltre ai 3.500 posti già concessi, un ampliamento di altre 3.500 immissioni in ruolo.

In materia di edilizia scolastica e sicurezza degli edifici. Da qualche anno la legge n. 23 del 1996 - anno quindi recentissimo - non è stata più finanziata. Eppure, è di tutta evidenza che l'edilizia scolastica ha un'importanza determinante per una piena fruizione del diritto allo studio e per un buon funzionamento del sistema educativo. Allo stato attuale, le carenze strutturali sono assai estese, soprattutto nelle aree del Mezzogiorno, e si riferiscono, oltre che all'insufficienza ed inidoneità dei locali, anche al mancato rispetto delle norme di sicurezza. È noto, inoltre, che le carenze edilizie costituiscono un vincolo rilevante al processo di generalizzazione della scuola per l'infanzia e, più in generale, ad una didattica che valorizzi le attività di laboratorio, che dia spazio e significato alla creatività e all'innovazione.

Ma l'emergenza è la sicurezza. Non è più sostenibile una situazione di potenziale rischio per gli allievi e per il personale delle nostre scuole. Stiamo lavorando, a questo proposito, ad un patto per la sicurezza dei nostri ragazzi, attraverso un nuovo accordo tra ministero, regioni e autonomie locali, che renda disponibili nuove risorse in un ambito pluriennale e che elimini definitivamente la prassi delle proroghe, nel rispetto di quanto previsto dalla legge n. 626.

Per uscire dall'emergenza riguardante la spesa per l'istruzione, il mio intendimento è quello di analizzare a fondo il bilancio del ministero. Lo farò anche con il supporto di tecnici esterni - state tranquilli, senza aggravio di spese! -, perché voglio verificare gli eventuali sprechi di risorse e i motivi dell'incessante diminuzione delle risorse attribuite dalla legge n. 440 all'autonomia scolastica. Inoltre, voglio impedire che esistano sprechi, per giungere insieme alla consapevolezza che non è il Ministero della pubblica istruzione il dicastero dove si spende comunque troppo e comunque male. È un'operazione preliminare della massima importanza, per poter poi avviare politiche di razionalizzazione e di qualificazione della spesa. Ci sono molte diversità nell'allocazione delle risorse tra le diverse aree territoriali e tra le diverse regioni ed anche tra i diversi segmenti dell'istruzione, di cui occorre approfondire l'entità e le cause.
È certo, comunque, che il sistema educativo non può più sopportare tagli indiscriminati. La penuria provoca asfissia e pericolosi ripiegamenti o, viceversa, un disordinato e concitato muoversi delle autonomie scolastiche, per trovare, attraverso i più diversi progetti, le risorse necessarie ad un funzionamento decente delle istituzioni scolastiche. È anche insostenibile, per la dignità stessa del ruolo dell'istruzione pubblica nel nostro paese, che ci si debba rivolgere, in molte realtà, al contributo economico delle famiglie, per far fronte alle spese di ordinario funzionamento, dalla carta per le stampanti a quella per i servizi igienici, dalle carte geografiche alla manutenzione delle attrezzature informatiche. Perfino per la retribuzione delle commissioni degli esami di maturità, ho trovato una situazione, che non esito a definire scandalosa, di prolungata non assegnazione delle risorse necessarie, a monte di un'erogazione di lavoro certa e prevista per legge. Ho dovuto intervenire - come sapete, con un provvedimento che il Parlamento si accinge ad approvare - con la logica del tappabuchi. Una situazione di questo tipo, aggiunta alle restrizioni finanziarie piovute in questi ultimi anni sugli enti locali - che sostengono una parte importantissima di spese per il funzionamento della scuola -, deve riuscire a trovare un rimedio.

Uscire dalle emergenze è obbligatorio. Per farlo è, però, necessario: primo, eliminare, se ci sono, gli sprechi di risorse, dislocando tutto ciò che non è indispensabile all'azione dell'amministrazione sulle autonomie scolastiche; secondo, razionalizzare e riqualificare la spesa, tenendo conto sia di specificità preziose del nostro sistema educativo (come l'integrazione dei diversamente abili), sia di alcune emergenze e priorità (come l'integrazione scolastica degli immigrati e lo sviluppo dei livelli di istruzione degli adulti); terzo, modificare, in questo quadro, la fisionomia del bilancio della pubblica istruzione, non basandolo più solo sulla spesa corrente, ma anche sugli investimenti strategici.

Tutto ciò comporta la definizione, in base a criteri oggettivi e scientifici, dei livelli appropriati o essenziali delle prestazioni del sapere, e quindi della spesa pro capite per studente necessaria per raggiungere questi obiettivi formativi.

Anche per questa via, dunque, si torna inevitabilmente al grande ritardo del nostro sistema, relativamente alla definizione degli standard di riferimento dell'azione educativa e alla necessità di superarlo in tempi brevi. Le autonomie scolastiche hanno bisogno di questo salto di qualità, per poter passare dalla scuola dei programmi e delle procedure ministeriali a quella della progettazione dei curricula, per poter valutare i risultati ottenuti e per potersi autovalutare. Si tratta di un punto di grandissima importanza, decisivo per la qualità della scuola, a cui dobbiamo dedicare il massimo impegno. Attenzione ed indirizzo necessitano anche di fondi strutturali che riceviamo dall'Unione europea e di tutti gli altri fondi che riceviamo da altre fonti, perché siano inseriti a pieno titolo nel sostegno all'autonomia scolastica e alle vere esigenze di una scuola che è in marcia verso l'eccellenza.

La definizione degli obiettivi formativi, dei livelli appropriati delle prestazioni, degli standard di riferimento - che è compito dello Stato - è la sola via possibile per realizzare quello che ci chiede anche l'Europa, cioè la trasparenza e la compatibilità dei percorsi e dei risultati del nostro sistema educativo. Un passaggio, del resto, indispensabile per fondare su basi solide la validità legale dei titoli di studio e il loro riconoscimento in ambito europeo.

A questo obiettivo hanno un interesse diretto le famiglie, che hanno il diritto di conoscere i risultati del sistema e delle singole scuole, misurati in modo scientifico sulla base di parametri definiti, ma anche le autonomie scolastiche e gli insegnanti, per poter orientare la loro azione, superare le criticità, misurarsi con la ricerca dei possibili miglioramenti e leggere con chiarezza i risultati.

I dispositivi di valutazione finora attivati, che hanno avuto comunque il pregio di sviluppare una familiarizzazione delle scuole con le tematiche della valutazione, hanno molti limiti: quello strutturale di non riferirsi ad obiettivi formativi chiari e condivisi e quelli tecnici intrinseci alle modalità di somministrazione delle prove e ad altri aspetti non secondari. Occorre, dunque, contestualmente all'impegno principale - che riguarda l'individuazione degli standard di riferimento dell'attività formativa -, rivedere alcuni elementi specifici delle tecniche di valutazione.

Gli obiettivi da perseguire - lo ripeto per evitare ogni possibile fraintendimento - sono comunque quelli di approdare alla definizione dei criteri scientifici di valutabilità del sistema e delle singole istituzioni scolastiche, anche come supporto all'autovalutazione professionale degli insegnanti. La valutazione delle singole scuole è propedeutica a qualsiasi tipo di altra valutazione, che comunque non è, oggi, al nostro ordine del giorno.

Affronto ora il tema della scuola secondaria superiore. Se per il primo ciclo di istruzione c'è bisogno di modifiche mirate, da realizzarsi con il metodo del «cacciavite», e di un processo di rivisitazione, supportato dai pareri e dalle competenze di chi opera concretamente nella scuola, di specifici dispositivi e delle indicazioni nazionali, per il secondo ciclo abbiamo bisogno di più tempo. Le questioni in campo, infatti, sono molto complesse e più lungo e complesso sarà l'ascolto degli insegnanti e dei dirigenti scolastici. È decisivo, in questo quadro, attivare l'ascolto attento degli studenti e dei genitori, sentire le loro proposte, coinvolgerli nella definizione delle loro scelte.

Per questo, oltre ad aver bloccato una sperimentazione che era stata contestata dalle regioni e che non poteva, in effetti, disporre di tutte le condizioni necessarie ad una realizzazione significativa per l'intero sistema, abbiamo presentato al Parlamento una proroga di diciotto mesi per i decreti legislativi non scaduti della legge-delega n. 53 del 2003 e per il conseguente differimento al 2008-2009 dell'entrata in vigore. È un tempo necessario per impostare correttamente e in progress la realizzazione degli obiettivi contenuti nel programma di Governo.

Circa la volontà di elevare l'obbligo d'istruzione scolastica, due anni in più di istruzione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare le competenze di base di tutti, ma anche per consentire di effettuare le scelte di indirizzo e di percorso ad una età non troppo acerba e con una maggiore consapevolezza, da parte dei giovani e delle loro famiglie, delle propensioni e delle attitudini effettive. Non si può scegliere, come è noto, ad occhi chiusi, né solo sulla base delle aspettative dei nuclei familiari e delle aspirazioni connesse con le condizioni sociali di appartenenza. Costringere i ragazzi a scegliere troppo presto significa esporli al rischio non solo di decisioni che appartengono più al destino sociale che alla maturazione di un livello sufficiente di autorientamento, ma anche di scelte che ignorano o rimuovono i talenti effettivi di ciascuno. E una scuola che mette al centro i diritti della persona questa cosa non può e non deve mai farla. Né deve farlo una società democratica che vuole essere una società aperta.

Due anni in più di istruzione significano anche, come ho già accennato, innalzare dai quindici ai sedici anni l'età minima per l'ingresso al lavoro. Una decisione, del resto, in linea con il rispetto che dobbiamo alla delicata età dell'adolescenza, oltre che con la riluttanza di gran parte del mondo imprenditoriale all'inserimento nella struttura produttiva di ragazzi troppo giovani. È passata molta acqua sotto i ponti - e per fortuna - rispetto ai tempi in cui i figli dei ceti sociali più modesti passavano direttamente dall'infanzia alle responsabilità e alle durezze della vita adulta, anche se il dramma del lavoro minorile nel nostro paese riguarda ancora 145 mila unità. Tra i sedici e i diciotto anni, come si è già sottolineato, ogni attività lavorativa - come in altri paesi dell'Unione europea - deve essere integrata da una forte dimensione formativa. Se il diritto all'istruzione, a partire da una certa età, non può annullare il diritto al lavoro, è però il lavoro che deve declinarsi sulla necessità che anche i giovani che si inseriscono presto nel mercato del lavoro abbiano le stesse opportunità degli altri di conseguire qualifiche professionali e titoli di studio. Passa di qui, come è noto, l'incremento dell'occupabilità delle persone - cioè la loro forza soggettiva di misurarsi con successo con le difficoltà e le incertezze che caratterizzano oggi il lavoro - e la loro stessa possibilità di continuare ad apprendere per tutto il corso della vita.

Per ciò che riguarda il nuovo biennio, la sua fisionomia dovrà essere tale da contemperare diverse esigenze: l'innalzamento delle competenze di base per tutti; lo sviluppo e la verifica degli orientamenti e delle propensioni di ciascuno; l'abbattimento drastico dell'insuccesso scolastico, della demotivazione e degli abbandoni, attraverso una didattica capace di valorizzare le attitudini cognitive e le aspettative dei ragazzi e delle ragazze.

Una scommessa non semplice, come è dimostrato dal fatto che proprio sulla difficoltà di individuare soluzioni culturali ed organizzative equilibrate, attente alle esigenze di ciascuno, si è arenata da più di trent'anni un'ipotesi di riforma del secondo ciclo che fosse sufficientemente condivisa. Occorrono, dunque, un monitoraggio attento delle esperienze in atto, il supporto di idee e di proposte del sistema educativo reale, l'analisi dei fabbisogni professionali del sistema produttivo e dei servizi.

È, comunque, evidente che un biennio rigidamente scolastico, in cui la realizzazione dei suoi diversi compiti fosse affidata unicamente all'articolazione del curriculum in discipline generali e di indirizzo, rischierebbe di riprodurre i fenomeni di dispersione scolastica e di esclusione formativa, che vogliamo invece contrastare. È, dunque, importantissimo che il nuovo biennio, utilizzando soprattutto la quota di monte-ore affidata all'autonomia scolastica, che, come sapete, ho riconfermato al 20 per cento sui curricula, e attivando linguaggi e metodologie didattiche diverse da quelle tradizionali, sappia valorizzare le diverse intelligenze e i diversi talenti dei ragazzi. Ed è altrettanto importante, anche nel quadro del Titolo V, che le autonomie scolastiche e gli attori istituzionali responsabili della programmazione dell'offerta formativa, sappiano predisporre i percorsi più adatti a rendere attraenti ed efficaci i percorsi formativi, tenendo conto sia delle diverse tipologie della dispersione in questa fascia di età, sia delle risorse formative attivabili nel territorio.

Il nostro paese, infatti, non è affatto omogeneo dal punto di vista delle risorse locali del sistema educativo e tale omogeneità non è immediatamente realizzabile.

D'altro canto, anche la dispersione non è un fenomeno che presenti, sempre e dovunque, le stesse caratteristiche: l'insuccesso scolastico di Scampia e dei quartieri spagnoli di Napoli non è la stessa cosa degli abbandoni precoci determinati dall'attrattività di un inserimento immediato nel mercato lavoro di alcune aree del nord-est, e neppure la stessa cosa della rinuncia di tanti figli dell'immigrazione, dopo la scuola media, a proseguire in qualsiasi ulteriore percorso formativo. C'è, inoltre, un rischio di dispersione che può essere contenuto e limitato con una didattica più attenta e con l'integrazione di attività di orientamento e formazione professionale dentro il percorso di istruzione. Mentre, in altri casi ci si deve misurare con un rifiuto netto di qualsiasi tipo di aula, anche la più arricchita di attività di laboratorio. È, in ogni caso, evidente che è il livello locale quello che consente di avere il quadro preciso dei diversi bisogni formativi, il contesto privilegiato della progettazione organizzativa e didattica.

Decisiva, a questo proposito, è l'attivazione di anagrafi regionali e provinciali, complete e aggiornate di tutti i soggetti «in obbligo» e di efficaci servizi di orientamento delle famiglie e dei ragazzi. I ritardi che si sono accumulati su questo punto in diverse aree regionali sono tra le criticità più acute del nostro sistema.

Non si possono attivare gli interventi di recupero degli abbandoni se non si accerta, scientificamente e in modo aggiornato, l'entità e i bisogni formativi dei drop-out: quelli che escono dalla scuola media senza licenza o in tale ritardo scolastico da rinunciare ad ogni proseguimento dell'apprendimento per via formale; quelli che si disperdono nel passaggio dalla scuola media alla superiore; quelli che cadono nei primi anni della scuola superiore; quelli che abbandonano i percorsi di formazione professionale o che escono precocemente dall'apprendistato; i tanti «minori stranieri ricongiunti», o arrivati da soli nel nostro paese, di cui il nostro sistema scolastico non ha traccia.

In tema di valorizzazione dell'istruzione tecnica e professionale, voglio dire che gli istituti tecnici e gli istituti professionali costituiscono, insieme, oltre il 60 per cento del secondo ciclo di istruzione. La loro importanza non è però solo numerica, perché essi costituiscono il canale attraverso cui la maggioranza degli studenti consegue titoli che consentono sia il proseguimento degli studi nell'istruzione superiore, accademica e non accademica, sia le competenze professionali per l'inserimento nel mondo del lavoro.

Storicamente, sono stati gli istituti tecnici ad assicurare le figure e i profili professionali indispensabili alla nostra industria manifatturiera e molti di essi sono tuttora i «fiori all'occhiello» di singole aziende o di distretti industriali. Il calo di iscrizioni, che li caratterizza ormai da una decina di anni, deriva da un insieme di fattori, tra cui è della massima importanza la crisi, nell'immaginario stesso dei giovani e delle famiglie, anche nel nord-ovest, del prestigio sociale dell'industria e delle figure professionali che vi fanno riferimento. Ma gli istituti tecnici restano un percorso formativo della massima importanza per il paese e per i giovani. È importante che i titoli finali consentano anche l'iscrizione all'università, ma lo è altrettanto che la maggioranza dei diplomati entri direttamente nel mercato del lavoro.

La valorizzazione dell'istruzione tecnica, di cui lo sviluppo del paese ha grandissimo bisogno, non passa dall'improbabile «licealizzazione» decisa nell'ultima legislatura. In questa scelta vi è la perdita del valore professionalizzante dei titoli finali e la riduzione della parte di curriculum destinata alla formazione di tipo laboratoriale. Si tratta di una scelta - non a caso duramente contestata da tutte le associazioni di impresa del paese -, in cui sono del tutto evidenti culture antiche ed obsolete che non riconoscono il profilo e la complessità della cultura tecnologica e neppure la sua densità culturale, umanistica e scientifica. Gli istituti tecnici e professionali, dunque, devono essere modernizzati nell'impianto culturale e didattico; devono però essere tenuti lontani da processi di assimilazione, tout court, ai licei generalisti.

Anche l'istruzione professionale statale - che rappresenta il 23 per cento circa della scuola secondaria superiore e che, a differenza degli istituti tecnici, non ha subito in questi ultimi anni un calo di iscrizione - ha bisogno urgente di modernizzazione ed innovazione, a partire dal carico eccessivo di discipline e di saperi segmentati, che è causa non secondaria dell'alto tasso di dispersione che si verifica nei primi due anni. Tra le sue caratteristiche più interessanti, che ne fanno un'area di attrazione dei giovani, che all'uscita dalla scuola media non sono propensi a percorsi formativi lunghi e tantomeno a percorsi che conducono obbligatoriamente al post-secondario, c'è ormai una lunga tradizione di rapporto con i mercati del lavoro locali e la possibilità di conseguire una qualifica professionale di validità nazionale, la duratura esperienza di integrazione tra scuola e formazione professionale, tra formazione e lavoro.

Quello che abbiamo scritto nel programma del Governo, cioè il proposito di valorizzare l'area formativa tecnico-professionale - nell'ambito di una più generale valorizzazione dei percorsi di carattere scientifico - conduce necessariamente ad averne una visione unitaria, che escluda lo spacchettamento tra tecnici e professionali, che deriverebbe, a mio avviso, da una lettura riduttiva di quanto disposto dal Titolo V. Dobbiamo, al contrario, ricondurre in un'unica area gli istituti tecnici e professionali, integrarne le risorse - come già stanno facendo numerose sperimentazioni - anche con l'apporto dei sistemi locali di formazione professionale, flessibilizzarne il funzionamento in modo da assicurare la possibilità di conseguimento di qualifiche e di diplomi professionalizzanti di più livelli diversi. Tutto ciò senza alcun pregiudizio delle competenze in merito a tutto ciò che è titolo professionalizzante da parte delle regioni.

La valorizzazione dell'area tecnico-professionale richiede, per esser davvero tale, interventi importanti, sia monte, sia a valle. A monte, significa che anche nella scuola di base le discipline e le attività di carattere tecnologico non devono essere considerate - come del resto auspicavano gli stessi programma degli anni settanta - puro spazio applicativo delle conoscenze teoriche, cioè figli di un dio (culturalmente) minore. A valle, significa che occorre sviluppare percorsi formativi di tipo tecnico-professionale di alta specializzazione, post-secondari, ma non necessariamente di natura accademica. L'esperienza di corsi di formazione e istruzione tecnica superiore e la progettazione regionale di poli formativi «di campo», collegati con la ricerca scientifica e con i sistemi produttivi di riferimento, sono già passi in avanti in questa direzione, passi a mio avviso molto importanti.

Sono passaggi cruciali anche per contrastare il calo delle cosiddette vocazioni scientifiche. Tale calo, infatti, non è solo il risultato delle scarse prospettive di impiego dei giovani che si formano in questi campi, in un paese in cui la ricerca pubblica è stritolata dalla penuria di investimenti politici ed economici, la ricerca privata è ridotta al lumicino e le aziende preferiscono assumere diplomati e licenziati della scuola media, piuttosto che laureati (come ci segnalano incessantemente le indagini EXCELSIOR). La distanza cresciuta negli ultimi anni dal sapere scientifico e tecnologico dobbiamo assolutamente colmarla.

Su questi temi, assolutamente strategici per una moderna configurazione del secondo ciclo, il nostro impegno deve essere altissimo. Non sfugge a nessuno, infatti, la loro importanza per un nuovo sviluppo del paese, e noi dobbiamo, in questo settore, investire.

L'attenzione alla cultura e alla formazione tecnico-professionale va, però, coniugata con quella dedicata alla riqualificazione, alla modernizzazione e al rilancio degli indirizzi di carattere umanistico, anch'essi decisivi per lo sviluppo di un paese. Mi ostino a ritenere ancora che la scuola debba avere un ruolo essenziale come artefice di un processo di umanizzazione delle nuove generazioni. Il nostro paese, caratterizzato non solo da un patrimonio eccezionale di beni culturali, ma anche da produzioni artistiche e culturali di grandissima importanza, anche dal punto di vista economico, non può non avere un ruolo decisivo nel sistema educativo in questi campi. A tale proposito, svilupperemo un impegno comune tra il Ministero dell'istruzione e quello dei beni e delle attività culturali.

In questo quadro, l'educazione musicale e artistica deve essere valorizzata nel ciclo di base e nel secondo ciclo, sia all'interno dei curricula di ogni indirizzo, sia con l'istituzione di percorsi specialistici finalizzati al conseguimento di qualifiche professionali e di diplomi. Gli stessi poli di istruzione e formazione tecnica superiore, collegati alla ricerca, che oggi stanno progettando le regioni, devono essere declinati anche in questo senso.

Per ciò che riguarda gli esami di Stato, la composizione attuale delle commissioni di esame ha confermato e rafforzato la fisionomia di un sistema educativo che rischia, se non corretto, di andare progressivamente ad attenuare, in tutto il percorso degli studi, il valore formativo delle prove, l'importanza dell'impegno nello studio e il significato del merito individuale.

Il dispositivo dei «debiti» e dei «crediti», non sostenuto da strumenti efficaci ed in tempi certi di recupero dei deficit accumulati, può avere effetti qualche volta diseducativi, proprio come un esame finale in cui c'è perfetta coincidenza tra chi ha erogato la formazione e chi ne giudica i risultati finali. Le critiche di moltissimi studenti, che denunciano l'«inutilità» delle prove di maturità, sono il segno di desideri positivi di cambiamento. Anche qui, dunque, bisogna cambiare, restituendo valore e dignità al lavoro dell'apprendimento e dell'insegnamento, in primo luogo ripristinando la presenza dei commissari esterni nelle commissioni degli esami di Stato.

Tra i modi per restituire tutto il loro significato ai percorsi di studio, c'è anche la valorizzazione delle politiche di orientamento, che riguardano l'implementazione sia dei rapporti tra il sistema educativo e il mondo del lavoro e delle professioni, sia di quelli con l'università e con i percorsi di istruzione superiore non accademica. Occorre riflettere inoltre sulla possibilità di inserire, all'interno delle commissioni che valutano gli accessi alle facoltà universitarie, insegnanti della scuola media superiore.

Dal prossimo settembre avrà inizio una campagna di ascolto delle scuole su tutti i temi di maggiore importanza e, in particolare, su quelli che riguardano il secondo ciclo. Gli insegnanti, i dirigenti scolastici, gli studenti, le famiglie saranno coinvolti nell'approfondimento dei cambiamenti necessari ed auspicabili.

Con gli studenti e con le famiglie, discuteremo in particolare anche proposte innovative di sviluppo dell'educazione motoria, sanitaria, ambientale e alla legalità. Si tratta di campi importanti per la responsabilizzazione dei giovani rispetto a sé stessi, agli altri e ai beni comuni. Una cura particolare sarà data al rapporto tra educazione e salute, alla prevenzione delle dipendenze e dei disturbi alimentari.

Avremo bisogno di costruire le condizioni, a partire dal prossimo DPEF, per tenere aperte le scuole anche di pomeriggio, coinvolgendo le famiglie e gli attori del territorio (enti locali, fondazioni, imprese): è un modo importante per far crescere la responsabilità dei ragazzi rispetto alle proprie scuole e per dare loro spazi di incontro e cooperazione.

A questa campagna di ascolto tengo molto. Io stesso mi impegno a partecipare a eventi e incontri regionali, perché sono certo che è solo attraverso un processo di condivisione che si possono affrontare questioni così vaste e di tale complessità.

Non ci saranno, dunque, nuove edizioni di «Stati Generali» un po' verticistici e neppure altri manifesti evocativi di un nuovo mondo o di perentoria rottura con un mondo considerato vecchio o da buttare. Sono convinto che la scuola italiana apprezzerà anche un lavoro teso a dare una quotidianità dignitosa agli insegnanti ed un sapere al passo con l'Europa ai nostri studenti.