Ministro Mariastella Gelmini

Intervento alla Camera 10 giugno 2008


  Signor Presidente, signori deputati,

 

GELMINI MARIA STELLA

Ministro della Pubblica Istruzione

Relazione alla Commissione Cultura della Camera

10 giugno 2008

 

 

 

Introduzione: una questione di metodo

 

Signor Presidente, onorevoli deputati,

il grande rispetto che porto per il lavoro del Parlamento e l’importanza che assegno al confronto con le commissioni, mi hanno indotto a chiedere al presidente Aprea e al presidente Possa di separare in due distinti momenti la mia audizione.

 

Istruzione, università e ricerca scientifica costituiscono un tutt’uno: hanno per protagonista lo stesso soggetto, la persona, nel suo cammino di crescita e conoscenza, e sono parti dell’unica infrastruttura dell’educazione e del sapere, ma la loro complessità, la diversità di linguaggi e, in parte, di problemi, la necessità di focalizzare, sia pure a grandi linee, il dibattito e dare alla commissione la più ampia possibilità di esprimersi, meritano, da parte di tutti noi, l’esercizio di un duplice sforzo.

 

Dunque quest’oggi discuterò con voi della scuola primaria e secondaria.

 

È necessario dire anzitutto qualcosa che mi preme e che ritengo abbiate voi il diritto di sapere ed io il dovere di esprimere. È il criterio affettivo, il sentimento razionale con cui ho deciso di accettare questo incarico gravoso ed esaltante. So bene che esso è pesato su spalle di grandi filosofi ed eminenti letterati, ai quali non mi permetto di paragonarmi, se non per l’essenziale, che non è la scienza, la cultura, ma la passione per l’educazione. Il desiderio che questa Italia cresca, e cresca nel bene più prezioso, che oggi si usa definire capitale umano, ma che più semplicemente si chiama “persona”. E la scuola, in continuità con l’intendimento delle famiglie, è il luogo primo e decisivo di questa possibilità in cui sola sta la speranza.

 

Per definire la crisi che attraversa non solo l’Italia, ma l’intero Occidente, il Santo Padre non ha esitato a parlare di “emergenza educativa” come del punto di debolezza maggiore della nostra società. Parole che rispecchiano i sentimenti di preoccupazione che il Presidente Napolitano ha voluto manifestarmi l’altro giorno.

 

Nel dibattito sulla fiducia, lo scorso 13 maggio, questa espressione è stata richiamata da deputati di entrambi gli schieramenti (in particolare da Renato Farina del Popolo della Libertà e da Marina Sereni del Partito Democratico). L’emergenza educativa non si affronta semplicemente con nuovi contenuti e nuove metodologie, pur utili. Né con il richiamo a dei “valori” astrattamente affermati.

I valori per essere condivisi e vissuti devono essere convincenti per i ragazzi, ed essi lo sono se testimoniati da adulti – siano essi genitori, insegnanti ma anche personale non docente – che propongano un senso positivo della vita.

 

Signor Presidente, onorevoli deputati,

ho deciso, in queste settimane, di mantenere il più assoluto riserbo sulle linee di indirizzo, salvo rispondere ad alcune urgenze rispetto alle quali il silenzio del ministro poteva essere male inteso.

 

Non ho concesso interviste, non ho scritto articoli, ho invece iniziato a studiare i dossier, a leggere quanto di buono o meno buono è stato scritto in questi ultimi anni sulla scuola, a riflettere per impostare proposte ragionevoli e utili.

 

Oggi non intendo fare la “lista della spesa”, anche e soprattutto perché i singoli capitoli di quella lista meritano, e li avranno, momenti di confronto focalizzato. Intendo invece esporre i principi e i metodi di un piano di legislatura.

 

Sono sicura che il Presidente della commissione, l’onorevole Aprea, sia la persona più qualificata, anche per temperamento e indole, a trasformare questo metodo in una realtà quotidiana.

 

1.      La fotografia

 

Signor Presidente, onorevoli deputati,

il governo e il ministro hanno piena consapevolezza dei gravi e complessi problemi della scuola. Consentitemi di risparmiarvi una serie di dati di largo e pubblico dominio e di valutazioni che, in questi mesi, ho visto largamente condivise, e di limitarmi ad alcuni numeri fondamentali.

 

I nostri studenti nelle comparazioni internazionali risultano tra i più impreparati d’Europa. Le indagini Ocse-Pisa, che misurano le competenze in ambito matematico, scientifico e la capacità di lettura e di soluzione dei problemi da parte dei quindicenni, collocano l’Italia ai livelli più bassi della classifica: tra 57 Paesi, siamo al 33º posto in lettura, al 36º in cultura scientifica, al 38º posto in matematica.

 

Peggio di noi, in Europa, solo Grecia, Portogallo, Bulgaria e Romania. Meglio di noi, Lituania e Slovenia. Rispetto a sei anni fa, siamo scivolati in basso.

 

Vorrei però sottolineare preliminarmente che i risultati cambiano sia riguardo alla tipologia di scuola (meglio i licei, peggio i tecnici e i professionali), sia rispetto all’area geografica (meglio il nord, peggio sud e isole), sia all’interno di ciascuna area, con una distribuzione di emergenze ed eccellenze a macchia di leopardo.

 

Va anche sottolineato che, se tutti i commentatori hanno fermato la loro attenzione sui dati preoccupanti dei quindicenni, ben pochi hanno parlato delle scuole elementari, che mantengono un livello di eccellenza: lo studio Iea Pirls pone i nostri bambini di 9 anni all’ottavo posto al mondo come capacità di lettura, in Europa secondi solo a Russia e Lussemburgo.

 

Dobbiamo dunque evitare di cercare soluzioni indifferenziate. Trattare malattie diverse con la stessa cura non è certamente un approccio razionale.

 

Premesso il quadro nazionale unitario cui siamo chiamati dai principi espressi dall’art. 117 della Costituzione, occorre superare una vecchia e deleteria logica centralistica che non tiene conto delle specificità sociali e territoriali. Il nuovo ruolo delle Regioni, sancito dal titolo V della Carta Costituzionale e da definire compiutamente nell’attuazione della Legge 53 (legge Moratti), così come il necessario rafforzamento dell’autonomia scolastica, devono costituire una sorta di federalismo all’insegna della sussidiarietà che è il quadro istituzionale entro cui affrontare i problemi.

 

E dobbiamo adottare la miglior cura per chi è più malato. Se siamo tutti convinti che l’istruzione è storicamente la più formidabile leva di emancipazione e riscatto sociale, è ancora più urgente riparare questa leva nel Mezzogiorno d’Italia, dove i bassi livelli di apprendimento, la povertà e il degrado sociale rappresentano un male da estirpare.

 

Quasi centocinquanta anni di studi e interventi dei grandi Meridionalisti, sin dalle prime indagini di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, ci insegnano che solo attraverso il riscatto del Mezzogiorno e il dispiegamento delle sue enormi potenzialità l’Italia potrà considerarsi pienamente nazione.

 

A fronte di questi dati serve uno scatto d’orgoglio nazionale. Ciascuno di noi è chiamato a reagire e a togliere quel velo di rassegnazione che troppo spesso accompagna l’analisi del sistema scolastico. Dai posti più bassi delle classifiche, l’Italia può e deve risalire.

 

Così come non possiamo rassegnarci di fronte al dato preoccupante della dispersione scolastica. E’ un dovere cui siamo chiamati non solo dal protocollo di Lisbona, ma dalla garanzia che dobbiamo dare alle nuove generazioni di avere a disposizione tutti gli strumenti atti ad affrontare il futuro.

 

Sono due milioni gli studenti delle scuole superiori, oltre il 70%, che riportano una o più insufficienze al termine del primo quadrimestre. E negli istituti professionali gli insufficienti sono ben 8 su 10. Sono 200mila gli studenti delle superiori che nel corso del quinquennio abbandonano la scuola o vengono bocciati.

 

In una scuola dove – per riconoscimento unanime – seri e rigorosi criteri selettivi sono venuti via via scemando e in cui si registra un’enorme dispersione di capitale umano, o meglio, di persone in carne e ossa che vedono il proprio futuro pregiudicato, occorre una presa di posizione lontana da inutili visioni ideologiche: il Paese ci chiede a gran voce di lasciare lo scontro politico fuori dalla scuola.

 

Non basta elevare sulla carta l’obbligo scolastico, ed è negativa la scorciatoia di semplificare i processi di apprendimento. Nostro compito è offrire al Paese una scuola che ciascuno, secondo le proprie propensioni individuali, senta come uno strumento utile e necessario.

 

E’ l’ora del buon senso, del pragmatismo e delle soluzioni condivise.

 

Questo principio vale anche sul fronte insegnanti. Non possiamo ignorare che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore dopo 15 anni di insegnamento è pari a 27.500 euro lordi annui, tredicesima inclusa.

 

Fosse in Germania, ne guadagnerebbe ventimila in più. In Finlandia sedicimila in più. La media Ocse è superiore a 40.000 euro l’anno.

 

Questa legislatura deve vedere uno sforzo unanime nel far sì  che gli stipendi degli insegnanti siano adeguati alla media Ocse!

 

Ma per far questo dobbiamo aggredire le cause delle iniquità del sistema, mediocre nell’erogazione dei compensi, mediocre nei risultati, mediocre nelle speranze.

 

Una scuola ostaggio di rivendicazioni, più finalizzata al controllo ideologico che non al recupero dei compiti del sistema, ha prodotto un esito che credo né i sindacati, né i partiti, né la società italiana tutta possano ritenere sensato: stipendi da fame, tramonto della cultura del merito, tramonto del senso della scuola.

 

E’ una sconfitta nazionale cui tutti abbiamo il dovere di reagire!

 

  1. Il vero cambiamento

 

Noi abbiamo bisogno di vero cambiamento, non di presunte riforme.

 

Per troppi anni abbiamo creduto, tutti, che le riforme legislative potessero produrre una palingenesi del sistema educativo e abbiamo affidato all’approvazione parlamentare di leggi di sistema la nostra speranza di migliorare la scuola.

 

Abbiamo investito le nostre energie sull’attività legislativa, abbiamo discusso troppo e troppo a lungo di cicli, di modelli pedagogici, di indirizzi, di dottrine e di ideologie formative.

 

Abbiamo imbullonato e sbullonato leggi e decreti, badando più al colore politico che alla sostanza dei problemi.

 

Oggi dovremmo tutti renderci conto che abbiamo bisogno di buona amministrazione e buon governo, di semplificazione e di chiarezza.

 

Il ministro prende qui l’impegno solenne a rispettare queste considerazioni: proporrò modifiche legislative solo dove è strettamente necessario, cercherò di contenere l’irresistibile tendenza burocratica a produrre montagne di regolamentazione confusa e incomprensibile, cercherò di favorire l’adozione di criteri generali e indicazioni nazionali leggibili, evitando la metastasi delle norme di dettaglio.

 

Cercherò, soprattutto, di preservare e mettere a sistema quanto di buono fatto dai miei predecessori. Per questo motivo non ho avuto tentennamenti rispetto alla cosiddetta “circolare Fioroni” sul recupero, attraverso prove supplementari, dei debiti scolastici.

 

Nonostante il suo ritiro mi fosse chiesto da più parti e mi avrebbe garantito una facile popolarità, ho preferito rischiare di essere impopolare piuttosto che antipopolare. Ho provveduto, certo, a modificare aspetti che mi sembravano troppo dirigistici, ma non ne ho cambiato la sostanza. Questi anni hanno dimostrato che non c’è alternativa possibile e praticabile al ritorno nella scuola dell’impegno e del rigore.

 

  1. Gli insegnanti, motore del cambiamento

 

Per troppi anni la scuola, come altre istituzioni, è stata amministrata con una visione ribaltata rispetto alla logica e al buonsenso.

 

Si è pensato che l’abbassamento della qualità potesse agevolare gli studenti da un lato, offrendo dall’altro lato agli insegnanti qualche garanzia in più che potesse compensare la perdita di ruolo e di status, con il risultato di non favorire né gli uni, né gli altri.

 

La scuola ha smesso di essere un servizio ai cittadini e alla Nazione, per diventare un enorme ammortizzatore sociale.

 

Non c’è paese al mondo che abbia fatto così. Non ci sarebbe organizzazione in grado di sopravvivere a queste procedure. E’ ingiusto. E’ ingiusto per gli studenti ed è ingiusto per i docenti. E’, soprattutto, mortale per la qualità del sistema educativo.

 

Accanto a questo criterio autodistruttivo, ne abbiamo introdotto un altro che ha mortificato il senso di responsabilità. Abbiamo livellato le retribuzioni verso il basso. Verrebbe da dire, abbiamo toccato il fondo.

 

Nella scuola abbiamo troppi dipendenti e poco pagati. Con una carriera pressoché piatta. C’è poi da stupirsi se i tantissimi bravi maestri, i tantissimi bravi professori non si sentano motivati? Se tantissimi giovani preparati che hanno la vocazione all’insegnamento scelgono altre strade non solo meglio retribuite, ma con la prospettiva di veder riconosciuto il proprio impegno, il proprio merito?

 

Se lo Stato dà poco non potrà che chiedere poco, in una spirale di frustrazione inarrestabile.

 

Dobbiamo trovare il modo di rovesciare questi criteri. La rivalutazione del ruolo dei docenti, a partire dal pieno riconoscimento del loro status professionale che non può essere confuso con chi nella scuola ricopre altri ruoli pur essenziali, è un nodo da sciogliere.

 

E lo affermo, dicendo un grazie a tutti quegli straordinari insegnanti, a quegli eccezionali dirigenti scolastici, ai membri del personale amministrativo che non solo fanno il proprio dovere, ma nonostante tutto vanno ben oltre.

 

Abbiamo delle eccellenze da cui imparare, da cui io voglio imparare, andando non a fare visite di prammatica, ma vivendo la scuola insieme con loro.

 

  1. Le risorse

 

Dobbiamo trovare insieme il modo di migliorare le prestazioni della scuola, la retribuzione degli insegnanti e la qualità dei servizi accessori sapendo che non disponiamo di risorse economiche illimitate, anzi che dobbiamo compiere un grande sforzo di riqualificazione della spesa pubblica.

 

Il precedente governo aveva avviato un piano triennale di contenimento della spesa pubblica nel settore scuola che noi abbiamo ereditato e rispetto al quale non possiamo che procedere. I conti dello Stato e la situazione economica internazionale lo impongono.

 

La coperta è corta, ma la scuola è una priorità, non è un capitolo di bilancio qualsiasi. Da essa dipende il futuro del Paese. Bisogna tenerne conto.

 

  1. L’autonomia scolastica e la valutazione

 

Se vogliamo concretamente migliorare il sistema scolastico in Italia non si può eludere il tema dell’autonomia e dell’assunzione di responsabilità a tutti i livelli.

 

Parlare di autonomia significa innanzitutto valorizzare la governance degli istituti, dotarla di poteri e risorse adeguate e puntare sulla loro valutazione.

 

Autonomia e valutazione sono due facce della stessa medaglia. Non possiamo rendere piena l’autonomia scolastica senza un sistema di valutazione che certifichi, in trasparenza, come e con quali risultati venga speso il pubblico denaro.

 

Roger Abravanel in Meritocrazia definisce il nostro un paese “pietrificato” e come tale destinato al declino, e precisa quale sia la sua idea di merito. Un’idea che io condivido totalmente e pienamente: “Meritocrazia è un sistema di valori che promuove l’eccellenza delle persone indipendentemente dalla loro provenienza sociale, etnica, politica ed economica”.

 

Il merito non è una fonte di disuguaglianza, ma al contrario uno strumento per garantire pari opportunità, e dunque la più alta forma di democrazia.

 

Secondo Abravanel, “l’equazione del merito è: intelligenza più impegno. La scuola e l’università devono premiare gli studenti migliori. Se i risultati sono uguali per tutti, saranno sempre i figli dei privilegiati a prevalere.

 

 A mio avviso il punto d’approdo del merito è rappresentato dalla valutazione oggettiva degli studenti, degli insegnanti e delle scuole.

 

Una valutazione che deve riguardare, scuola per scuola, non la presunta qualità dei processi e delle strutture, ma deve misurare il risultato dell’azione educativa sul singolo ragazzo quanto a  valore aggiunto di cognizioni e crescita rispetto all’ingresso e deve tener conto della dispersione scolastica.

 

Serve un cambiamento epocale di mentalità, ma la società è pronta e se lo aspetta. Non sarà semplice, non sarà immediato, ma io voglio dare il mio contributo per spargere i “semi del merito”. Germoglieranno, ne sono sicura: l’Italia è pronta.

 

Se condividiamo il valore della valutazione, questa legislatura deve dare stabilmente all’Italia un sistema avanzato e riconosciuto. Se condividiamo il ruolo delle autonomie scolastiche, non solo a parole, ma nei fatti, sarà più facile liberare le loro potenzialità.

 

  1. La parità scolastica

 

Ritengo sia fuorviante, in questo senso, parlare di parità scolastica marcando la diversità degli istituti scolastici in statali e privati. Si dice paritaria, e paradossalmente con ciò si finisce per allargare il solco.

 

Con la legge 62/2000, varata da un governo di centrosinistra otto anni fa, esiste oggi in Italia un sistema pubblico di istruzione in cui convivono, in piena osservanza costituzionale, scuole che sono dello Stato e scuole paritarie istituite e gestite da privati. Tutte svolgono un servizio pubblico, in quanto tenute a rispondere a precise indicazioni ordinamentali stabilite dal sistema legislativo.

 

Le scuole statali servono oltre il 90% dell’utenza, sono quindi una realtà estremamente ampia e capillarmente diffusa sul territorio nazionale.

 

D’altra parte sta crescendo in tante zone d’Italia la domanda delle famiglie di percorsi educativi con specifiche connotazioni, cui la scuola paritaria può fornire risposte adeguate.

 

Un sistema pubblico di istruzione che fondi sul principio di sussidiarietà forme di pluralismo educativo è la risposta alle esigenze di istruzione e formazione del cittadino.

 

L’affermazione della parità scolastica sarebbe un espediente retorico se si lasciassero languire o morire esperienze educative valide.

 

Oltretutto, un dossier dell’Agesc rileva che il risparmio per l’erario determinato nell’anno corrente dall’esistenza di queste libere iniziative è di circa 5 miliardi e mezzo, a fronte di un contributo di circa 500 milioni di euro.

 

Invito tutti a non pensare agli istituti, ma agli studenti e alle loro famiglie, e vi chiedo: c’è qualcuna di queste famiglie che merita meno di altre sostegno alla sua determinazione ad educare liberamente i propri figli in un modo piuttosto che in un altro?

 

Le risposte finanziarie fin qui sperimentate costituiscono un valido punto di partenza per individuare forme efficaci di sostegno alle famiglie. Le scelte che il governo farà in proposito avranno tutto lo spazio del dibattito parlamentare per arrivare ad un sistema equo e condiviso.

 

In questo senso sarà interessante valutare le soluzioni che non solo i governi nazionali via via succedutisi hanno messo a punto, ma anche le strategie promosse dai governi regionali più sensibili alla soluzione del problema.

 

 

  1. La condivisione degli obiettivi

 

Al di là dei singoli temi e capitoli, occorre percorrere, tutti, la strada del cambiamento condiviso per dare stabilità al sistema. Solo condividendo la necessità di cambiare e rifuggendo da logiche conservative, entriamo in sintonia con larga parte del corpo sociale e diamo un senso al nostro ruolo.

 

Quattordici associazioni di genitori, di dirigenti scolastici e di docenti hanno recentemente promosso un manifesto appello che chiede la condivisione di obiettivi che vanno dalla libertà di scelta educativa alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, dalla personalizzazione dei piani di studio alla rivalutazione del ruolo del corpo docente.

 

Altre spinte nella stessa direzione provengono dal mondo della scuola, dell’imprenditoria, dalle Regioni e dagli Enti Locali.

 

Altre ancora dall’indagine conoscitiva condotta, nella precedente legislatura, dal Ministero dell’Economia e Finanze e dal Ministero della Pubblica Istruzione, i cui esiti sono stati raccolti e analizzati nel “Libro bianco sulla scuola” del settembre 2007.

 

Autonomia, valutazione, merito sono i grandi temi su cui il Paese aspetta una risposta, in primo luogo dalla sottoscritta, e su cui il Parlamento ha il diritto e il dovere di esprimere la propria potestà legislativa.

 

Mi sembra di poter registrare una convergenza anche con l’opposizione sulla necessità di avviare, leggo dal programma del Partito Democratico, “una vera e propria carriera professionale degli insegnanti, che valorizzi il merito e l’impegno”, e di “realizzare un nuovo salto nell’Autonomia degli Istituti scolastici, facendo leva sulle capacità manageriali dei loro dirigenti, all’interno di organi di governo aperti al contesto sociale e territoriale, sulla valutazione sistematica dei risultati”.

 

Celebrando la Costituzione italiana il mio predecessore, on. Fioroni, parlava di questa come della possibile “legislatura del buon senso”. Condivido le sue parole.

 

E se c’è un campo dove il buon senso e la politica si devono incontrare, è proprio quello della scuola. Proprio sotto l’egida del buon senso, peraltro, mi sembra si sia avviato il confronto con Mariapia Garavaglia. Ringrazio il ministro ombra all’Istruzione, più ancora che per le parole di stima che ha voluto rivolgermi, per essere da subito entrata, senza preclusioni, nel merito dei primi atti compiuti dal mio dicastero.

 

  1. Ad ogni persona, la sua scuola

 

Ma cosa chiediamo alla scuola? La risposta potrebbe apparire scontata, ma non lo è.

 

Oggi pochi si aspettano dalla scuola che essa fornisca conoscenze disciplinari, formazione culturale, formazione professionale, educazione.

 

Non se lo aspettano molti, troppi studenti: non è un caso che, se abbiamo portato al 93 per cento il tasso di partecipazione all’istruzione secondaria superiore della fascia dei giovani tra i 15 e i 19 anni, nel 2006 ancora un giovane su cinque tra i 18 e 24 anni aveva abbandonato prematuramente gli studi senza acquisire un diploma di istruzione superiore o almeno una qualifica professionale entro il diciottesimo anno di età.

 

Possiamo tendere a raggiungere gli obiettivi di Lisbona, solo se a quei giovani e a quelle famiglie riusciamo non a dire, ma a dimostrare, che in quel diploma e in quella qualifica c’è non un pezzo di carta, ma un futuro migliore.

 

Oggi la società italiana, ce lo dicono i dati statistici, è immobile. Il figlio dell’operaio è, drammaticamente, condannato a sua volta, e se è fortunato, a fare l’operaio.

 

Ditemi voi se questo non è un sistema iniquo! Lo asseriva Antonio Gramsci che il merito e la fatica dello studio sono gli unici possibili fattori di promozione sociale.

 

E’ una citazione dai Quaderni dal carcere che voglio ricordare prima di tutto a me stessa: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare "facilitazioni"... occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato”.

 

Abbiamo, di fronte a noi, un’occasione. Il precedente governo ha stabilito, di concerto con le regioni, di rinviare al 1° settembre 2009 l’entrata a regime della Legge 53 (Legge Moratti).

 

Il tempo è poco, ma il Parlamento e tutti gli attori coinvolti hanno la possibilità di dare al Paese una prova straordinaria di produttività.

 

Ci sono due pilastri da rafforzare: il primo, riguarda il nocciolo duro dell’istruzione. Il secondo, riguarda la personalizzazione dell’istruzione.

 

Lo Stato è chiamato dalla Costituzione (art. 117 commi m ed n), a determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e a “dettare le norme generali sull'istruzione”.

 

I “livelli essenziali”, nella società della conoscenza, non possono che essere costituiti da una formidabile preparazione di base, che oggi è venuta drammaticamente a mancare.

 

La “patente delle tre I”, Inglese, Internet, Impresa, indispensabile a percorrere le strade del terzo millennio, non può essere presa a discapito della quarta I: la I di Italiano, termine con cui ricomprendo l’antico trinomio “leggere, scrivere, far di conto”, da declinare e approfondire a seconda dei livelli e dei percorsi di istruzione senza indulgere nello spezzettamento dei saperi e nei “progettifici” che, ce lo dicono i moniti internazionali, ma anche i documenti elaborati dal precedente governo, producono nei nostri studenti inevitabili cortocircuiti e deficit nella conoscenza impossibili da recuperare. 

 

Come fa dire Leonardo Sciascia al professor Carmelo Franzò: “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”  (“Una storia semplice”).  L’italiano: cioè il territorio in cui si esercita la ragione, la ricerca del senso, la matematica e infine le tre i, che fioriscono bene solo in questo alveo di significato.

 

Le indicazioni nazionali saranno concentrate su questo obiettivo, lasciando alle autonomie scolastiche le più ampie possibilità, nelle parti a loro riservate, di esaltare le proprie specificità, mi auguro, sempre con l’obiettivo dell’eccellenza.

 

Si sarà notato che uso molto spesso la parola eccellenza, e non cerco nemmeno sinonimi. Forse perché lo scopo che insieme con voi vorrei propormi è, per dirla con un ossimoro, la “normalità dell’eccellenza”. Non è un paradosso. Ma la tensione che anima ogni educatore appassionato.

 

Quanto alla personalizzazione dell’istruzione, non intendo riassumere un dibattito troppo vasto e troppo conosciuto dai presenti, la cui leva principale è nell’interazione tra autonomie scolastiche, docenti, studenti e famiglie.

 

Non c’è legge al mondo, non c’è circolare ministeriale che possa indicare come e quando personalizzare. Ci sono invece quadri di riferimento che possono aiutare i “soggetti della personalizzazione” a parlare tra loro e trovare tra loro le soluzioni concrete. Serve uno sforzo innanzitutto umano: è il cuore dell’educatore che personalizza l’istruzione.

 

Mi concentro, seppure per sommi capi, sulla scuola secondaria di secondo grado. Sul sistema dei licei, degli istituti tecnici e professionali, sulla formazione professionale.

 

Ho ereditato materiali utilissimi, come il rapporto della cosiddetta “commissione De Toni” sull’istruzione tecnica e professionale, che ci consentono di non iniziare ancora tutto da capo.

 

La mia prospettiva, spero la nostra prospettiva, è di portare tutto il sistema alla “serie A”. Ogni pezzo del sistema deve avere una pari dignità, perché ogni persona deve avere gli strumenti atti a edificare il proprio progetto di vita.

 

Vorrei che il dibattito sulla cosiddetta “scelta precoce” si trasformasse nella costruzione dei percorsi più adeguati per permettere ad ogni ragazzo di trovare la propria strada.

 

Il substrato di quel dibattito, magari sottaciuto, è permeato da una concezione classista per cui il liceo è di serie A, l’istruzione professionale e tecnica di serie B, il sistema regionale delle qualifiche di serie C.

 

Non è vero, non è così. O, meglio, non è scontato che sia così.

 

Non è così per gli Istituti tecnici, ad esempio, da cui proviene, e mi limito a citare un dato, lo “zoccolo duro” dei nostri laureati in ingegneria.

 

E mi rifiuto, ad esempio, di considerare il sistema della formazione professionale come una sorta di “suburra” dove relegare forzosamente sui banchi adolescenti per così dire “difficili”.

 

Ci sono Regioni che hanno costruito un sistema di grande qualità, che offre prospettive ai giovani e offre al mondo del lavoro persone preparate e predisposte alla formazione permanente.

 

L’indifferenziazione dei percorsi, la pretesa di uccidere le propensioni individuali per pretendere, ope legis, che ogni adolescente percorra la stessa strada è la traiettoria più sicura verso gli abbandoni e la dispersione.

 

Diamo ad ogni persona la sua scuola, e ogni persona troverà nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto.

 

Ridare senso alla scuola significa ridare un senso a ciascuno dei percorsi, per gli studenti e per le loro famiglie.

 

Significa ridare una motivazione, per ciascuno, a “stare sui banchi” per “stare meglio nella vita”. E alcune di queste motivazioni possono essere rintracciate nella permeabilità tra mondo della scuola e mondo del lavoro.

 

Alcune delle eccellenze nei settori dell’Istruzione tecnica e della Formazione professionale si fondano su questo interscambio. Ma non penso che il sistema dei licei debba essere considerato una “turris eburnea”, tutt’altro.

 

L’interazione tra scuola e lavoro, tra scuola e vita reale ha un ruolo inestimabile. Far comprendere allo studente, in un’età difficile, l’utilità concreta di quanto sta facendo. Che imparare non serve solo a essere promosso a scuola, ma ad essere promosso nella vita.

 

  1. I diversamente abili

 

E’ nello stesso spirito, nello spirito di una scuola che sia realmente per tutti, che affermo il diritto all’istruzione di chi presenta abilità diverse.

 

Gli obiettivi didattici, le metodologie e gli strumenti devono essere personalizzati e coerenti con le abilità di ciascuno per definire i livelli di apprendimento attesi.

 

Molte sono le buone pratiche costruite su competenza, professionalità, disponibilità e impegno delle diverse componenti scolastiche, dagli insegnanti di sostegno agli insegnanti curriculari, dai dirigenti scolastici alle associazioni.

 

Occorre far tesoro dell’esperienza.

 

Il mio impegno è indirizzato ad ascoltare le esigenze, le criticità, le proposte delle famiglie e di tutte quelle realtà associative che si occupano di disabilità al fine di individuare insieme anche percorsi formativi più adeguati al bisogno con la necessaria flessibilità, superando le rigidità che non sono coerenti con l’azione educativa.

 

  1. Una partnership tra scuola e famiglie

 

La scuola coinvolge la responsabilità dell’intera società, a cominciare dalle famiglie e dagli insegnanti. Elevare la qualità della scuola richiede un’assunzione di responsabilità collettiva.

 

I fallimenti sperimentati nella quotidianità con i gravi fatti di violenza, di bullismo, di tossicodipendenza rendono consapevoli insegnanti e famiglie dell’impossibilità di farcela da soli, ciascuno per proprio conto, e della necessità di “una cooperazione corresponsabile” tra tutti i protagonisti del processo di crescita umana e professionale dei giovani.

 

Se avvicineremo famiglia, scuola, comunità civile, il mondo del volontariato, con il suo patrimonio di valori vissuti e di conoscenza del prossimo, e li faremo convergere su un’attenzione disinteressata nei riguardi dei giovani, far fronte alla sfida dell’emergenza educativa sarà possibile.

 

Solo una “partnership tra scuola e famiglie” è in grado di affrontare disagi e difficoltà e di perseguire la qualità nei rapporti e negli apprendimenti in modo che “ogni studente possa trovare nella scuola le condizioni per valorizzare le proprie capacità e realizzare il proprio progetto di vita”.

 

Oggi difficoltà di apprendimento, scarso rendimento scolastico, abbandono degli studi,  inconsapevolezza delle regole, abuso di sostanze stupefacenti si trovano alla base di fenomeni antisociali quali la microdelinquenza  e il bullismo e si manifestano sempre più precocemente.

 

Va anche osservato che troppo a lungo si sono delegate alla scuola responsabilità e azioni che competono alla famiglia, la quale rappresenta, pur nelle sue difficoltà, la base fondamentale su cui sviluppare le attività didattiche, formative ed educative.

 

In questi ultimi anni, in particolare, la crisi della famiglia rende ancora più complesso il compito della scuola. Il manifestarsi delle diverse forme di disagio, infatti, chiama in causa innanzitutto gli affetti, i sentimenti, la vita di relazione dei giovani.

 

Se si vuole rispondere efficacemente alla profonda esigenza di trasmettere il valore del rispetto e della osservanza delle regole, il valore della legalità, dei diritti e di doveri, occorre agire sin dai primi anni di vita. Sin dalla scuola dell’Infanzia e dalla scuola primaria.

 

  1. Integrazione

 

Integrazione è una parola chiave. Integrazione nella comunità, nella civitas. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla spinta migratoria. Coinvolge centinaia di migliaia di adulti. Centinaia di migliaia di bambini.

 

Il nostro primo obbligo è insegnare loro la lingua italiana e la costituzione della repubblica. A tutti.

 

Non sono passati secoli, ma pochi lustri, da quando un’altra spinta migratoria, all’interno del Paese, è stata l’occasione per alfabetizzare centinaia di migliaia di italiani che sono diventati l’ossatura della nostra industria e gli artefici, con la doppia fatica dello studio e del lavoro, del miracoloso boom economico italiano.

 

Oggi, la stessa alfabetizzazione dobbiamo garantire agli immigrati e ai loro figli.

 

Per loro, e per i nostri figli. In quante classi il processo di apprendimento è frenato dalla necessità di non lasciare indietro, di non escludere quote sempre più ampie di alunni extracomunitari, ragazzi e ragazze con competenze proprie, ma penalizzati dalla barriera linguistica.

 

Occorre trovare soluzioni atte ad abbattere questa barriera, e concentrare su quelle le nostre risorse professionali ed economiche.

 

Uscire dalle sperimentazioni per entrare nella normalità. Sul come, vorrei si esprimesse la Commissione, ma chiederò anche l’aiuto di chi si trova in prima linea ad affrontare il problema, a partire dagli insegnanti delle classi dove più elevato è il numero di studenti stranieri.

 

Ma “alfabetizzazione” significa anche “alfabetizzazione civile”.

 

Per i figli degli extracomunitari, che devono apprendere le regole della comunità italiana, così come noi apprendiamo e applichiamo le regole delle case in cui veniamo ospitati.

 

Ma anche per i giovani italiani.

 

Giusto 50 anni fa un grande statista e ministro della Pubblica Istruzione, Aldo Moro, introduceva nelle scuole lo studio dell’educazione civica. Mi sembra che potremmo celebrare degnamente questo cinquantenario e i sessanta anni della Costituzione Repubblicana restituendo all’Educazione civica un ruolo centrale.

 

Signor Presidente, onorevoli deputati,

mi avvio ormai a concludere. Prima delle elezioni un gruppo di volenterosi uomini di conoscenza (Gruppo di Firenze) si è riunito per proporre agli italiani e alle forze politiche in particolare un manifesto-appello.

 

Vorrei farlo mio e impossessarmi del suo messaggio più importante: “Sia le riforme, sia il governo e la vita della scuola a tutti i livelli dovranno ispirarsi ai criteri di merito e di responsabilità. L’aggiornamento dei programmi, la riorganizzazione dell’istruzione superiore, l’autonomia delle scuole potranno dare risultati effettivi e duraturi solo recuperando e mettendo in pratica questi elementari principi dell’etica pubblica e privata”.

 

Dobbiamo “offrire ai nostri ragazzi una scuola più qualificata ed efficace, ma insieme più esigente sul piano dei risultati e del comportamento”.

 

Dobbiamo “restituire ai docenti, spesso demotivati e resi scettici da troppe frustrazioni, il prestigio e l’autorevolezza del loro ruolo, intervenendo però con tempestività e rigore nei casi (pochi, ma negativi per l’immagine della scuola) di palese negligenza o inadeguatezza. I dirigenti scolastici infine andranno valutati in primo luogo per la loro capacità di garantire nel proprio istituto professionalità e rispetto delle regole da parte di tutti”.

 

Ai firmatari di questo appello, (a Giorgio Allulli e Remo Bodei, a Gian Luigi Beccaria e Piero Craveri, a Giorgio De Rienzo e Giulio Ferroni, a Ernesto Galli della Loggia, Sergio Givone, Giorgio Israel, Mario Pirani, Lucio Russo, Giovanni Sartori, Aldo Schiavone, Sebastiano Vassalli, Salvatore Veca) voglio rivolgermi chiedendo loro aiuto.

 

Sono convinta che invertire la tendenza al degrado della scuola richieda un grande sforzo nazionale alla quale è chiamato il Parlamento, sono chiamate nelle loro definite responsabilità le parti sociali, è partecipe il mondo della cultura, i giovani e le loro famiglie.

 

Ho bisogno, abbiamo bisogno di una grande “alleanza per la scuola” che restituisca al Paese la parola speranza.

 

A chi ha sottoscritto quel documento, ai tanti che in queste settimane mi hanno dato utilissimi consigli, chiedo collaborazione.

 

E la chiedo anche alle associazioni degli studenti. Ho incontrato recentemente il loro Forum, so che non sarà facile trovare una lingua comune, perché troppo spesso si è data per scontata una sostanziale incomunicabilità e un atteggiamento dove ministro e rappresentanti degli studenti sono “controparti”.

 

Io non lo do per scontato, chiedo a loro di non darlo per scontato, prendendo l’impegno a tenere con loro, innanzitutto, un canale aperto non episodico.

 

So che magari su alcuni punti avremo posizioni diverse, ma almeno ci saremmo parlati e confrontati.

 

La scuola ha bisogno di impegno civile.

 

Non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo credere che la scuola italiana sia un malato terminale: è necessario uno scatto d’orgoglio di tutti.

 

Io ci credo, io sono ottimista, io intendo spendermi fino in fondo. Vi chiedo di aiutarmi in questo sforzo di ricostruzione della principale infrastruttura italiana. Grazie!